giovedì 26 novembre 2009

L'odore delle parole

Le mani si bloccano a mezza strada, tra le tasche e la bottiglia d'acqua frizzante, immobili nello stupore. Tiro su col naso, forte, un paio di volte, come una bestia che riconosce nell'aria qualcosa di familiare.
Un odore che non dovrebbe esserci, però, nel vuoto di una scrivania riempito solo di carta, e polvere, e caffé di pessima qualità. Di pelle, di lana, di nebbia che entra dalla finestra.
Eppure si infila, nel getto di parole buttate all'indietro e nelle risposte secche come uno scavare, un odore di mare morto. Odore di granchi lasciati marcire in una pozza di sale, di gusci svuotati dalla fame dei murici, di alghe seccate dal sole. Un profumo velenoso di marcio che quasi mi fa sboccare. Un profumo che avevo dimenticato di amare.
A volte, le parole, si sentono col naso. 
Col naso mi ricordo chi sono.
         

mercoledì 18 novembre 2009

Tra le gambe delle sedie

E poi, d'improvviso, venne il buio.
Che non era proprio scuro, però, avrebbe detto qualcuno sicuro del proprio sguardo. Almeno a vederlo da fuori. C'erano i lampioni che illuminavano fiaccamente gli alberi nudi, le televisioni brillavano nervose dagli occhi dei palazzi e alcune stelle faticavano per mostrarsi attraverso lo spesso strato di polveri che faceva da scudo alla città.
Ma era nera, dentro, quella notte lì. Da lasciare senza fiato.
Come se tutto ciò che il corpo conteneva - cuore polmoni fegato milza reni intestini e salcazzo cosa d'altro ci sta dentro - si fosse sciolto in un buio di pece che risucchiava anche gli occhi.
Alfonso, seienne stentato e spigoloso come un agrifoglio, si infilò istintivamente sotto il tavolo. Era la sua tana, protetta dalle gambe delle sedie fitte come le sbarre di un cancello in ferro battuto. Da una feritoia, sottile poco più di un dito secco di sua nonna, sgranò gli occhi sul niente.
Una specie di paura vischiosa gli si appiccicò alle palpebre, accecando completamente ciò che gli restava della vista. Egli gridò, sbattendo con violenza la testa sul legno che gli faceva da soffitto.
A tentoni, raschiando con le unghia rosicchiate fino ai polpastrelli, tento di cavarsi via quella sostanza viscida che sembrava colata dai suoi stessi pensieri. Ma in vano.
La sua tana sembrava essersi fatta una gabbia, tanto era lo sbattere delle sue ossa contro le sedie.
Con un soffio di fiato, l'ultimo che si sentiva in gola chiamò: 
- Ehi tu! - lasciando che il suo orgoglio spinoso andasse ad appuntirsi altrove.
Davanti ai suoi occhi comparvero improvvisamente due gambe sottili ed eleganti, sicure nell'incedere verso di lui. Calzavano stivali bassi di cuoio, adagiati mollemente sulle caviglie.
- Ehi tu! - rispose soltanto, ma con una voce che rideva.
La luce gialla di una lampada si insinuò improvvisa nella selva delle sedie.
Alfonso non riusciva più a ricordare le parole che aveva ascoltato, ma le foglie gialle dei liriodendron tulipifera stese a terra come un tappeto non gli erano mai sembrate così belle.
             

venerdì 13 novembre 2009

Quarantadue

La fermata è gremita da una piccola folla che sporge la testa sulla carreggiata per vedere se, in lontananza, la foschia disegna la sagoma di un autobus. E che poi subito si ritira sbuffando sulla banchina, come dentro il guscio di una tartaruga. Le auto corrono affilate.
Il quarantadue, invece, è sempre vuoto. Tutti si lasciano ingoiare dal famelico trentatré - dica trentatré! - abbandonandomi alla mia attesa solitaria.
Fumo. Bastano due boccate che il pullman mi stride nelle orecchie. 
Una signora, un vecchio cappotto vinaccia e due sporte cariche di broccoli, tira fuori dalla borsetta un telefonino scintillante e comincia a giocare a qualcosa. Si accanisce sui tasti, impreca in silenzio.
Un naso lungo affononda nella pagine di un libro. Una curva di naso che mi trapassa come un coltello. I capelli nerissimi sono indifferenti ai sobbalzi del bus, solo i suoi stivali marroni paiono innervositi dal continuo cercare una posizione dei piedi. Cigolano, quasi.
Un ragazzo con gli occhiali di plastica nera tiene il tempo del suo ipod con le dita.
Accanto a me, un signore si getta di peso sul sedile pieno di scritte "Ti amo". Lo guardo di traverso e mi si oscura la faccia: la sua somiglianza con Felt*i è imbarazzante. La mia smorfia di orrore, involontaria. Mi guarda e sgrana gli occhi, come a chiedermi scusa, come a dirmi che non è colpa sua. La natura matrigna, uno scherzo del destino, una serie di eventi casuali che hanno messo in quel modo il naso, la bocca, gli zigomi, ingrigito i capelli, svuotato di senso l'espressione degli occhi.
Distrattamente mi alzo,  la scelta degli occhiali è già un concorso di colpa.
Passeggio l'ultima fermata.
          

martedì 10 novembre 2009

Status quo

Emicrania da eccesso di burocrazia. 

[Che io gli darei fuoco a tutte quelle carte inutili che ti obbligano a fare.]
   

sabato 7 novembre 2009

Sala nove

Arrivo al cinema che è troppo tardi per il primo spettacolo e troppo presto per il secondo. In una specie di limbo perfetto solo per birra e patatine, ma ho già cenato e a volte la gola non basta.
Che il prossimo che mi dice che in medio virtus stat se ne può andare affanculo fin da subito. In medio non c'è niente. Solo 'La battaglia dei tre regni'.
Un film che quando esci hai subito voglia di provare ad abbattere un cavallo con una spallata, come hai visto fare a quel generale con la barba che sembra una specie di tanuki
Oggi andrò al maneggio.
Ma come si diceva ne 'Il caricatore':
il cinema è un altra cosa!  Proprio un'altra.       

mercoledì 4 novembre 2009

Manuale per un uso consapevole dei cachi

Aprì il frutto con un gesto secco delle dita, cavandone via il picciolo verde oliva come aveva visto fare migliaia di volte, in novembre, da centinaia di mani. Era uno strappo leggero della carne che lasciava un piccolo foro circolare laddove prima c'era una rosa di foglie dure.
Il frutto, con il ventre spaccato, giaceva riverso su un piatto di ceramica bianca, un cucchiaino riposava proprio lì accanto, sul tavolo nudo.
Si ricordò allora, nel brillare dell'acciaio, di tutte le volte che qualcuno aveva tentato di insegnargli a mangiare i cachi: il cucchiaino che affondava nella polpa e la strappava per portarla alla bocca o il coltello che ne faceva spicchi dalla geometria esatta. Ma non era mai riuscito a imparare a non sporcarsi la punta del naso quando si perdeva in quel piacere dolciastro.
Allora rise, pensando a tutti gli insulti presi per le camice macchiate, e raccolse il frutto nel palmo. Lo soppesò con attenzione quasi eccessiva. Era molle e profumava di brina, arancione che occupava l'intero spazio degli occhi. Infine lo portò alle labbra e cominciò a succhiarlo.
Lentamente, le dita e il muso si tinsero di una viscida patina chiara mentre del frutto rimaneva solo la pellecchia svuotata e due semi sputati con stizza sul tavolo.
Quando le porse le dita da leccare, lei sorrise sgranando gli occhi di voglia.
Essere rimasto selvatico era la sola cosa buona che avesse mai fatto nella vita.
           

martedì 3 novembre 2009

Ginkgo biloba L.

Cerco foglie gialle, alte fino al ginocchio, come si cerca acqua trasparente che non si tocca. Per la meraviglia di un guizzo.
I piedi strascicati lasciano solchi bruni che frusciano alle spalle. Ma quel che c'è dietro non conta più. È terra arata che darà frutti che non saprò.
Il mio posto è avanti da qui. Un passo oltre.
A godere il piacere disperato della pioggia addosso e di queste foglie gialle di ginkgo, in cui le caviglie sprofondano molli.
È arrivato l'autunno.
E me ne accorgo solo oggi, nella nostalgia della mia casa lontana.
Nell'aria, profumo di riso grezzo e vino nobile di Montepulciano.