lunedì 27 luglio 2009

Sull'andare

In casa si sente solo l'eco dei nostri passi.
I muri nudi non offrono più resistenza all'aria che si infila in folate calde dal ballatoio all'abbaino. Spalancata così, Casetta, sembra quasi più grande, come se aver levato i pochi mobili, i libri e le pentole che fumavano in cucina avesse allontanato le pareti tra loro.
Disorientato, la misuro in passi lunghi un metro.
Arturo corre da una stanza all'altra. Non gli par vero tutto quello spazio libero per giocare. Mi guarda, alza la coda e la gonfia: mi sfida a insegurlo.
Cominciamo una danza che forse è un rituale di addio.
Scalzo, inseguo il gatto per tutta casa ridendo, fin sul ballatoio, dove mi fermo solo quando mi imbatto nei nuovi vicini. Mentre noi ci prepariamo ad andare, loro vengono a vivere nella casa accanto.
Abib mi aiuta a scendere i miei pacchi, io a salire i suoi. Condividiamo un ascensore, un balcone e una fatica.
- Abibi in arabo vuol dire Amore - mi ha detto presentadosi.
- Daniele, invece, solamente Dio è il mio giudice - gli ho risposto, anche se avrei voluto tanto dirgli peace and love, fratello!, affinché sapesse subito che sono un cretino.
Sua moglie ha una pancia che la precede orgogliosa di mezzo metro. Pare essersi dimenticata di partorire e portarsi nel ventre un bambino di almeno sei mesi. Ogni tanto entrano da noi, scelgono ciò che gli serve tra quello che lasceremo e ci raccontano delle loro famiglie in Senegal. È uno scambio equo: una storia ogni tre pacchi di pasta.
A me quasi dispiace partire proprio ora che il cortile si sta rianimando. E non solo il cortile.
Sul tetto, un amico di Abib s'è già attaccato abusivamente alla parabola di quelli del terzo e io non riesco a non pensare che era la volta buona che mi facevo Sky a scrocco.
La Prof, intanto, tira a lucido il pavimento. Lava e piange, credendosi nascosta dal riverbero del sole sulle piastrelle lustre.
Anche se l'ho fatta star male, dice che lei è sempre stata felice quassù, insieme a me. Anche se quando me ne uscivo sul tetto moriva di paura.
Casa nuova non ha vie di fuga. Solo un letto enorme che fa venire voglia di stare.

Ma non c'é più tempo.
Il sole è già sceso dietro i tetti di fronte e sta arrivando la sera. E con la sera arriva anche Rodica carica di una montagna di coperte:
- Ti aiuto io a preparare un giaciglio - dice alla Prof che lentamente si asciuga gli occhi - quando sono venuta di Romania le prime sere anche io ho dormito per terra.
- Noi l'ultima, invece - risponde ritrovando una specie di allegria. 
Stasera staremo ancora così, adagiati sul pavimento vuoto a guardare un'unghia di luna e le quattro cupole a cipolla della sinagoga.
La nostra ultima mille e una notte.
Qui.
                        

giovedì 23 luglio 2009

De rerum transloci

Tutto si può dividere in parti più piccole, ovvero la ricerca di nuove particelle subatomiche comincia dal mio divanoletto.
Ah, il bosone di Higgs lo abbiamo intravisto alle dodici e ventitré, stava in una piazzola d'emergenza.
  

domenica 19 luglio 2009

La vita al metrocubo

Tre anni di vita stanno in trentasette scatoloni, quattordici buste e tre valige. Vestiti esclusi.
In finale, i libri hanno battuto le scarpe per sette a quattro.
Si sono piazzate bene anche le pentole senza coperchi, al quarto posto.
E tutto il resto è noia. Ma per oggi ho finito le scatole. 
   

mercoledì 15 luglio 2009

Golden Shower

Ginocchia: dobbiamo smetterla con questo stile di vita dissoluto!  
Fukuda: ah sì? E perché?      
Ginocchia:
perché ogni volta che vado a far pipì sento odore di birra.
Fukuda: quale?
Ginocchia: come "quale"? 
Fukuda: quale birra?    
Ginocchia:
aaah, di Erdinger...
Fukuda: minchia, beato te. Sempre il solito fortunato.
Ginocchia: sì, come no? Fortunato di cosa?
Fukuda: che c'hai la spillatrice incorporata, ora basta che ti porti dietro la pila di bicchieri di plastica e sei a posto...  
   

sabato 11 luglio 2009

Rituali di Corteggiamento

Torino mi stupisce sempre.
Come un'amante elegante e austera a cui sfugge, tra le dita che coprono le labbra, la parola che ti schiude il sorriso.
Torino oggi si lasciava desiderare, invece.
A nulla valeva l'initerrotto corteggiarla lungo le sue strade rette. Oggi non mi lasciava perdere tra le sue cosce e a ogni svolta d'angolo ritrovavo solo me. Perché ci sono giorni che io non vorrei incontrarmi mai e sono i giorni in cui Torino mi apre le gambe e mi lascia libero di dimenticarmi, aggrappato alla sua schiena ossuta. Ma oggi no, oggi non mi voleva.
Offeso, scendevo dalle sue natiche e varcavo il fiume, infilandomi ortogonale tre le vertebre delle piazze piccole.
All'ultima carezza lasciata in punta di dita tra le costole, però, l'ho sentita ridere. Una risata di un semitono troppo alta, che non mi aspettavo più.
Ho alzato la testa, allora, e ho visto il ventre di Piazza Carlo Alberto farsi palcoscenico e tredici attori vestiti di nero danzare con sé stessi e uno scaletto. E poi correre e ridere e prendere la gente per mano e raccontare.
E finalmente mi son perso.

[Che poi c'era un'attrice con le scarpe rosse a puis bianchi sotto il vestito nero e un fiore, anch'esso rosso, appuntato a una spallina. Capelli castani corti e un muso da furbetta.
E due tette grandi e tonde, che sbirciavano dalla scolatura quadra.
Ho pensato, subito, che forse quello era metateatro, teatro nel teatro.
Poi ho solo pensato che era molto bella.]
        

venerdì 10 luglio 2009

Traffic Free Festival

Le parole se ne sono andate finalmente.
Mi hanno lasciato libero dal bisogno di dire, di vomitarle in conati secchi, come se dovessi svuotarmi di qualche scheggia mal digerita che mi fa a brandelli l'anima.
Ora, finalmente, sono di nuovo libero di tacere. Di imparare ad ascoltare.
Seduto nell'erba, lascio la musica infilarsi nei miei vuoti.
Accolgo.
E con lo sguardo prendo anche il sorriso di chi con me ha diviso questi pochi metri di freddo alla schiena e musica. Grazie.
   

lunedì 6 luglio 2009

Scritto in faccia

La seconda legge di Baumhauer e Komp dice che il senso di scoramento è direttamente proporzionale alla lunghezza della barba.
E io non mi rado da quattro settimane.
     

sabato 4 luglio 2009

Pacchetto (in)sicurezza

Di questa legge qua, sui negri, sarebbe stato contento il nonno. Che lui era uno che i negri ci piacevano, il nonno. Me lo raccontava sempre, quando lo andavamo a prendere a Villa Cristina per portarlo a fare una passeggiata, che quando era andato in Africa "l'era pieno di negri lì".
Loro ci sparavano col moschetto, ai negri, e per ogni tre negri impallinati nelle chiappe il capitano Calderone gli regalava un pacchetto di nazionali.
Fosse ancora qui, il nonno, starebbe pulendo il moschetto.
Ché anche se c'è la crisi e l'offerta s'è ribassata, un pacchetto di nazionali per cinque negri è sempre un buon affare.    

[Disclaimer: si scrive decreto sicurezza, ma si legge mica tanto diversamente da così.] 
   

giovedì 2 luglio 2009

Blackout

La mia dipendenza dalla corrente elettrica è qualcosa di imbarazzante. 

[Ma almeno, con la scusa dello scioglimento dei ghiacci, mi son fatto mezzo chilo di affogato all'amarena.]
   

mercoledì 1 luglio 2009

Strana l'estate

L'afa mi schiaccia sul pavimento a cercare il fresco, come fanno i gatti. Rotolo dalla pancia alla schiena, e viceversa, lasciando ombre di corpo umano sul cotto. Neanche nei libri trovo la pace, stasera.
L'aria manca. E la poca rimasta è troppo calda per respirare.
Fuori pare prepararsi tempesta.
Un alito di vento gonfia appena le tende a e anche me, che mi sollevo come foglia, infilo le ciabbe e mi cavo fuori dal forno.
Appena qualche passo da casa mi accoglie la voce incantata di un gruppo jazz.
La piazza, una volta, era una distesa di auto e di gente che cercava parcheggio. Ora è una spianata di marmo tra due ali in discesa di typha angustifolia. Tutti dicono brutta, forse per quella casina nel mezzo che non c'entra nulla, ma io non mi ci sono
mai trovato male. Probabilmente solo per averci passato, rinchiuso nei laboratori di fronte, i miei anni più belli. Quelli dove tutto sembrava possiblie.
Ora rimane uno spazio d'aria, la vista su uno spicchio di collina, qualche parallelepipedo di marmo dove sedere e quel vecchio edificio in mattoni rossi a chiudere il quadro.
E così mi accoccolo a terra anche stavolta.
Mi levo le scarpe e mi corico, la testa poggiata a due coscie toste che sembrano di marmo.
Il cielo promette la pioggia. Lo si capisce dai lampi ininterrotti che vanno a tempo di jazz. Ma si sta bene lì, a guaradare le nuvole.
Alle prime gocce, però, s'ha da fuggire. Ci aspetta a bocca spalancata un cortile denso di percussioni e danze africane.
Tutti a piedi nudi, anche lì.
Adoro questa città, ma, stasera, fortuna vuole che piova sul serio.