martedì 30 ottobre 2007

Uggia

Ginocchia: Mi sento incompleto, Bilogo, come se mi mancasse sempre un pezzo. Come se non facessi mai abbastanza. Mai abbastanza bene.
Mi mancano pezzi a caso: certi giorni sono le gambe per reggermi, altri le mani per fare, a volte il cuore di credere, spesso il fegato per andare. Sempre un angolo d'anima.
Ed anche l'amore mi lascia come inadeguato.
Una vita spesa in mancanze.
Bilogo:  E se fossi tu?
Ginocchia: Ad essere mancante? è quello che pensavo, infatti!
Bilogo: No, a sentirti così. Se fosse un tuo limite caratteriale. Pretendere da te senza sapere valutare, senza valutare il peso degli altri. A me sembra che tu faccia le cose bene. Sei tu a vedere storto.
Ginocchia: Grazie, tu sei come sempre gentile. Ma io mi sento addosso un inquietudine che non mi molla. Come se non ce la facessi mai a vivere. Ma solo ad inseguirla, la vita.
Bilogo: Sei punto e a capo. Ti affanni.
Ginocchia: Senti, ma tu? Sei felice?
Bilogo: E' una domanda che non mi pongo più. Ne ho guadagnato in salute.
Ginocchia: Io non ce la faccio a non chiedere. A dire che non voglio sapere. Stai bene, tu?
Bilogo: Mmh.
Ginocchia: Ok. Sto zitto. 

lunedì 29 ottobre 2007

Non so

Il tempo ondeggia, un movimento instabile di mattonella rotta. Lo spazio si comprime e si dilata, come questi polmoni perennemente in spasmo di fiato.
Allora succede che cose lontane si facciano improvvisamente vicinissime. Immediate. A distanza di sputo.
E ciò che ci sta addosso, la notte, ci tenga fuori casa mostrandoci i denti. In un sorriso.
Che poi, tutto questo dire e non dire, significa solo che sono stato qui, perchè c'è gente che sa cose splendide e te le insegna anche senza metter su la faccia da maestra.
E tante altre cose. Che non so.


Io non so se questa mia vita sta spianata su un
buco vuoto. Non so se il silenzio che indago
é intrecciato alla mia sostanza molle.
Io non so se quello che cerco e ho cercato e
cercherò, non so se quello che cerco
é un insulto a quel vuoto.
Non so se questo fatto di non avere
un paio d’ali sia premio o castigo,
io non so se la polveriera
della mia inquietudine sia un trono
su cui mi siedo minacciato, se la fuga che
a scatti regolari mi pungola, se quel
puerile sogno di fuga sia uno sgambetto
d’angelo, d’un buffone d’angelo che
mi vuole inciampare.
Io non so se l’amore sia una guerra o una
tregua, non so se l’abbandono d’amore
sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale. Io non so
che farmene di questi nemici che premono,
non so che farmene oggi di questo oggi e me lo ciondolo fra le dita perplesse,
non so parlare di quello che
è sentito nel profondo me, non so parlarlo
quell’essere che é qui presente fra le vite degli
altri.
Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta in petto una gioia di figlio con la
madre. Non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei
guerrieri che si innamorano.
Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.
[…]
Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
carnevalesca decadenza di saltimbanchi,
io non mi spiego la crocifissione
della grazia, e non mi spiego perchè
mi trovo in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perchè stando a occidente non si
ode quell’alleluia delle cose.
Io non so se in questa schiena
senza ali ci son grandi pianure da cui fare
il decollo, se in questa spina dorsale
ci sono istruzioni
per la manovra di decollo, se sono io la freccia
di questo arco della schiena, se sono io
arco e freccia, non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.
Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
E’ poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.


("Monologo del non so" da Parsifal, in Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, di Mariangela Gualtieri, Einaudi, 2005)

venerdì 26 ottobre 2007

Autunno

Buio grigio di pioggia incombe dai vetri.
La luce gialla d'autunno si riflette sul legno spoglio del tavolo ikea. Sembra calda, la cucina, vestita d'arancio.
Lancio le scarpe bagante sull'uscio ed i vestiti umidi in terra. Equidistanti, come li avessi seminati. Clark, giacca, maglione, camicia. In fila sul pavimento.
Bagnato divento irrequieto ed indisponente.
La Prof sta seduta pacata davanti ad un cesto di castagne. Tiene qualcosa sul palmo della mano. Qualcosa che la fa sorridere e che io non riesco a vedere.
- Ciao - provo a dire mentre sgocciolo dai capelli.
- Guarda! - risponde lei tendendomi il palmo.
Ha il sorriso a mezzaluna, un sorriso che è meraviglia così tutto fatto di stupore e curiosità.
Nella mano ci sono tre piccoli vermi di castagna, grassi e tondi. Sembrano trovarsi a loro agio su quel palmo minuto, segnato da solchi leggeri.
Fossi un lettore di mani e tarocchi le predirrei una vita lieve e serena. Ma non possiedo magie e mi riesce solo di farle da peso.
Lei mi si scrolla di dosso e continua:
- Non sono i vermi più belli che tu abbia mia visto? Così teneri e chiattoncelli! Chissà che diventano poi?
Ed è bellissima in quest'istante di quiete, senza paure da niente.
Come libera anche da sé.


[Inevitabilmente, mi sorprendo ad innamorarmi di cose irragionevoli. Come di capelli castani lunghi che innescano bigatti su un amo ricurvo senza ardiglione. Uno a calzino e due a bandiera, per catturare le orate che non abbiamo mai preso.]

giovedì 25 ottobre 2007

Melecotogne

La marmellata di mele cotogne è il segreto che la nonna ha portato via con sé. Null'altro, credo, ci abbia taciuto.
Prima di mettersi ai fuochi, era solita mangiare uno spicchio di frutto, agro e allappusu, e farsi ancor più grinzosa nel volto. Solchi vericali dagli occhi alle labbra, radici agli zigomi, la fronte contratta. I capelli candidi, ingialliti dal tempo, stavano immobilizzati dalle forcine dello chignon. Tremavano un po', però, come se stessero tentando di liberarsi in scompostezza di circiuli.
Poi rideva e mormorava un'incoprensibile nenia.
C'erano in mezzo Manoverde, San Calogero e la storia di un pozzo.
Come se per cavar fuori il dolce delle cose bisognasse conocerne prima l'agrità. Una magia di consapevolezza.
Lavorava attenta, la vecchia, senza buttare parole nel mezzo. Neanche con noi bambini che la spiavamo un poco stupiti.
La marmellata nasceva gialla, compatta, dolcissima, conservando la lieve granulosità del frutto.
La salvezza autunnale di noi bimbi golosi, in epoca pre-nutella.

[Grazie, Yuki, per la suggestione di melacotogna.]

mercoledì 24 ottobre 2007

Dall'alba

Oggi la notte non vuole finire.
Sta come adagiata sul giorno. Greve, fredda, bagnata.
'La giornata non inizia per eccesso di ribasso', pare gridare la pioggia come un titolo di quotidiano.
Credo si tratti de "La notte ventiquattr'ore". Lo intuisco perchè lo strillone è in giacca e cravatta e non somiglia per nulla ad uno dei ragazzi della via Pal, come dovrebbe ogni strillone che si rispetti.
'Forse non ha abbastanza candele, oggi, il giorno!', commenta un signore coi baffi mentre lustra il verde al semaforo. Ha una scaletta a tre gradini ed un cane che borbotta vicino.
Un randagio, a giudicare dall'aria pulciosa e dal passo a tre zampe.
Lo osservo mentre lavora.
Pare felice, come se fosse pronto a partire.
Ma non faccio in tempo a chiedergli nulla. Il suo lavoro è eccellente ed il verde talmente brillante che mi obbliga a ripartire in un fischio di ruote.
- Frizione nuova, eh, Maruzzella? E cinghia di trasmissione. Da fare girare fino a Lontano!
Mi resta appoggiata alla nuca una domanda, però:
- Ma i lava-semafori di oggi, sono come gli accendi-lampioni di ieri? Gente che conosce il segreto di stare in silenzio?

martedì 23 ottobre 2007

Botanica due

Mi sorprende la tenacia delle piante e la loro livida astuzia. Nonostante l'apparente immobilità.
L'incendio che lascia solo macerie e donne piangenti e terra bruciata, il pino d'aleppo lo trasforma in vampa di calore. Per buttar semi e far nuovi germogli su quel che resta di sé. 
Vorrei poterla rubare, questa sapienza, al mio ficus. Alla begonia la bellezza e al ciclamino i pensieri al contrario.
E saper fare della cenere che ci rimane terra fertile.


[Nel caso di alcuni pini (ad es. Pinus halepensis) si deve sottolineare la presenza di "coni serotini", cioè strobili la cui apertura è resa possibile soltanto da alte temperature che, distruggendo il rivestimento di resina, permettono alle scaglie di aprirsi e di rilasciare i semi (Piussi P, 1994. Selvicoltura generale. UTET, Torino).]

lunedì 22 ottobre 2007

Mimica facciale

Cantine aperte tra le colline, per festeggiare gli ultimi grappoli di ottobre. Gialloscuro, dolcissimi. Una festa di paese come tante da giugno a ottobre. Solo più fredda.
Congelata la banda, il quartetto jazz all'angolo, il suonatore a manovella, i teatranti e i giocolieri. Stavano
appena bene il mangiafuoco ed il caldarrostaio.
Il mimo, astuto come talpa, stava rifugiato sottoterra. Tra le botti ed i curiosi.
Il mimo era una signorina di bell'aspetto, vestita da contadina, che raccontava con i gesti storie di masche [le streghe di queste terre generose]. Nascosta in un antro di cantina, era pronta a ricominciare la sua parte ad ogni passaggio di persona.
Io, curioso, mi fermai a guardarla.
Gli occhi erano verdi di strega.
Ma non avevo voglia di leggere il gesto del corpo che raccontava, non volevo conoscere l'avventura che l'aveva resa muta. Doveva essere stata una gran brutta vicenda, e paurosa, a giudicare dal suo muoversi sincopato su quell'improvvisato palco di pietra.
Sorrisi, dicendo: "Secondo me t'ha fatta muta l'orso! Perché sei troppo pettegola e dici male!".
Sorrise, avvicinandosi.
Giovanissima, capelli di cenere tirati all'indietro in un crocchio. La pelle era candida, lievemente arrossata dal freddo, le labbra screpolate e carnose. Il naso sottile era un punto rosso di freddo.
All'orecchio mi disse: "Son state le masche e non l'orso!! E' pieno, ovunque, di masche! Stai attento ai tuoi occhi di bosco!".
La voce era dolce, accento delle colline. L'ampio scialle grigio rivelava un corpo teso di muscoli e carne.
Era come se mi volesse salvare sul serio.
Poi la vidi scansarsi veloce all'indietro. Vociare di persone sulle scale. Una saetta di occhi azzurri inceneriva soltanto me.
"Bravo! - disse ancora la piccola mima - sei stato l'unico capace di farmi parlare!", come a spezzare l'incanto.

[Ma io conservo il gusto agro del miracolo della parola.]

venerdì 19 ottobre 2007

Crisalide

Oggi non ci sono. E non è nel vedermi, la presenza. Nella voce o nel peso della mano sulla spalla. Oggi non sono qui.
Come volato via.
Ad aspettare che il mondo si incrini come boccia di vetro.
Sorridendo.

giovedì 18 ottobre 2007

Baffi

Ho sempre desiderato avere baffi folti e la faccia irriverente. Baffi proiettati dal naso all'infinito.
Baffi come Magnum P.I. invece di queste labbra glabre.
Forse, in realtà, ho sempre desiderato essere come Magnum.
Per gli amici riottosi ed allegri, sinceri e sempre disponibili. Amici che non ti giudicano e che non ti negano. Fosse un passaggio in elicottero, dei soldi, due parole di copertura.
Amici come fratelli.
E un po' mi manca questa cosa.
Che io, per certe facce cupe, non direi mai di no.

 

 


 

mercoledì 17 ottobre 2007

Ocra

La mattina inizia presto. Troppo presto.
A volte mi sveglio che è ancora buio fuori. Me ne accorgo perché dalle tende filtra la notte. Non ho persiane in camera da letto, solo due tende piccole e spesse a coprire lo sguardo dell'abbaino.
Mi alzo che il gatto ancora dorme ed esco fuori, scalzo sulla pietra fredda del ballatoio. Mi piace tremare. Mi ricorda che sono vivo, di carne debole. Che la vita è essere disposti a tremare per qualcosa. Qualcuno.
C'è odore di silenzio nell'aria. La gente ha movimenti cauti prima dell'alba. Intorno solo poche luci accese. Calde.
Respiro il sapore dolciastro del biossido di zolfo, in alcune case hanno già acceso il riscaldamento. Dovrò ritirare la begonia nel sicuro arancio della cucina.
Rientro solo quando l'aria si tinge di giallo.
Le albe sono ocra, come i tramonti sono verdi.
Anche se nessuno se ne accorge mai. L'arroganza dei rossi che distoglie lo sguardo.

martedì 16 ottobre 2007

Pasionaria

Ti guardo.
Nascondi un segreto, appena sotto la pancia appoggiata di sbieco al lino delle lenzuola.
Ti guardo e sorrido della tua schiena bianca. 
Sfilo veloce le scarpe, l'orologio che potrebbe graffiarti, il primo bottone della camicia.
Ho bisogno di aria e spazio e movimenti ampi delle spalle per assecondarmi i sogni. Per lasciarmi condurre dai tuoi piedi veloci, od incerti. Spaventati o sicuri.
Due dita alle labbra, per scivolare meglio sulla tua pelle di carta.
Mi piace trovarti accogliente nel caldo del letto. Tuffarmi di sgembo nel tuo odore che era di pioppo, nel gesto flessuoso di rigirarti. Sfogliarti.
E infilarmi avido dentro di te a panciasotto. O supino, di lato, seduto in poltrona, a gambe incrociate. O.


[Leggere è anche questo, il corpo che si dispone in improbabili
posizioni da kamasutra.]

lunedì 15 ottobre 2007

Occhi gialli

Il gatto Arturo sbuca con un balzo dalla sua foresta personale. Era rigogliosa la nostra Spathiphyllum wallisii poco prima che la bestiaccia nera la eleggesse a sua dimora. Foglie lanceolate, grandi, verdescuro, qualche petalo altero-bianco di cui rimangono solo disordinati avanzi mangiucchiati.
Cammina lento in mezzo alla stanza. Le zampe sembrano scivolare sul pavimento.
Si siede proprio davanti a noi, la base del triangolo di cui lui è il vertice.
Io e la Prof siamo seduti in poltrona, ognuno nella sua, ognuno col suo libro. Ognuno col suo sonno di pensieri nella nuca.
Arturo ci guarda.
E noi, simulteanamente, iniziamo a contendercelo.
Lo chiamiamo per nome, gli facciamo il verso, fischiamo, miagoliamo. Grattiamo con le unghie sul jeans, ci battiamo le mani sulle cosce, poi sulla pancia, sempre più frenetici. La Prof lo irretisce con canto d'usignolo. Io lo minaccio, anche.
Provo a zittire lei che tenta di graffiare me, per distrarmi.
Intanto ci scrutano occhi spalancati gialli.
Il capo dondola da uno all'altro. Perplesso.
In uno sbuffo di vibrisse, si gira e se ne va.
Esplode uno starnuto di risate.
Forse abbiamo bisogno di due gatti per scaldarci la pancia dopo pranzo.

venerdì 12 ottobre 2007

La guerra dei mondi

Succede, a volte, che un marchingegno accrocchiato malamente nella mala-mente di un malo-soggetto, inaspettatamente, funzioni.
Succede che le parole sgorghino chiare, a delineare cose importanti. Per persone importanti.
Un pensiero blu di prussia sull'amore, uno verde sulla libertà. Un filo d'orizzonte a ricucirli.
Succede che il malandato malo-soggetto rilegga.
Succede che sorrida.
Succede che stia per premere 'invio'.
Succede che, all'improvviso, il monitor diventi blu.
E poi nero.
E poi da sotto si sentano dei bip strani.
Succede che vaffanculo.

Tanti e tutti insieme. Come un esercito di sorci.
V
affanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo!
E poi silenzio.

[Ed ora voglio la mappa per arrivare nel mondo delle parole perdute!]

giovedì 11 ottobre 2007

Ufficio brevetti

Oggi vorrei inventare un aggeggio.
Un aggeggio accrocchiato malamente. Ma che funzioni.
Una roba tipo un filo d'antenna da infilare nel naso -per pescare pensieri- quattro resistenze da otto ohm, un condensatore a massa e un motorino elettrico. Gli ingranaggi del caso e un doppio nodo al monitor.
Ecco, un ambradan del genere.
Perché qualsiasi cosa pensi oggi, se passa dalle dita, ne esce tutta storta.

mercoledì 10 ottobre 2007

Impreciso

L'alba buia di Ottobre mi lascia scorgere, del mondo, geometrie improbabili. Simmetrie che la luce nasconde con un gesto distratto della mano.
Strade dritte, silenzio, poche indaffarate persone. La radio che mi racconta la stessa storia ascoltata ieri da altra voce.
Ci sono luoghi dove il tempo ha fatto come un balzo in avanti. Un balzo brutale e violento che non vuol dire futuro.
C'è una generazione che non esiste più in un luogo del mondo non poi così lontano -il tempo l'ha saltata a pié pari- torturata nei garage e lasciata poi cadere nell'oceano.
Una generazione che non è la mia. Ma non di molto.
Una generazione che ha avuto il coraggio di. E non solo a parole.
Aggiro la retorica possibile scendendo dal marciapiede, come aggiro le anche nervose della fioraia e le sue rose.
Ma non posso non chiedermi del mio coraggio. E non sapermi rispondere.

martedì 9 ottobre 2007

Controllo farmacologico del pensiero

Succede, a volte, che la tartaruga d'acqua dolce che mi ha fatto casa nella boccia della testa smetta di galleggiare, silenziosa come sughero, e si metta, d'improvviso, a nuotare.
Dimentica, allora, il suo lavoro di cacciatrice di pensieri-medusa, che mi sfuggono lacrimosi dagli occhi.
Le zampe -ha artigli lunghi e forti- smuovono le acque torbide in piccoli vortici fangosi, il muso acuto sporge poco fuori dalla superficie liquida e gli occhi attendono, tesi, che qualcosa accada.
Pensieri-gambero schizzano fuori improvvisi e veloci, e astuti. Chele e corpi trasparenti. Pensieri all'indietro che se ne vanno via.
Tutto questo accade in fretta e io non lo capisco bene.
So solo che spesso ho una gran voglia di piangere e, insieme, il desiderio enorme di ridere con le mani sulla pancia.
A volte non capisco neanche ciò che sento, figuriamoci quello che scrivo mentre
con le dita tappo i buchi di questo colabrodo emotivo.

lunedì 8 ottobre 2007

Nuovi a venire

Sorellauno divide con me l'onere del naso. Un naso che -come il cognome- è il solo dono di nostro padre, e del suo, e di chi prima di lui. Unico vezzo patrilineare in una famiglia di donne dure, come intagliate nel tufo. Donne che sopravvivono a generazioni di uomini che muoino troppo presto.
La curva del naso di Sorellauno, però, è addolcita dal candore del sorriso e dal ventre arrogante. Otto mesi che spingono contro il vestito arancione. Dentro, una bimba che porterà un nome intessuto di sacralità. Un nome con cui, però, è stato ricamato il mito dell'abbandono.
Ma io questo non gliel'ho detto. Non glielo dirò.
Come col primo nipote, mi siederò a terra e aspetterò che le nostre vite si annodino coi fili del gioco e delle favole.

[Troppi chilometri tra noi, fratelli di naso. E un po' mi manca la fame improvvisa di pollo arrosto e patate unte, da dividere con me in una telefonata che somigliava ad un ordinazione. Ché la gola è un altro talento di famiglia ed un marito snello non da soddisfazione davanti al girarrosto Santa Rita come un fratello ingordo ed ubriacone.]

venerdì 5 ottobre 2007

Lecce

Lecce ti esplode addosso. In volute barocche di tufo.
Giallo, contro l'azzurro del cielo terso. Il collo prende una piega strana, volta verso l'alto. E dondola da un lato all'altro della strada.
Gli animali di pietra mi riconoscono cane, nonostante il vestito grigio e la giacca piegata sul braccio.
Mi possiede una specie di malia che mi impedisce di dormire. Mi butta in strada a qualsiasi ora, col naso all'insù.
[Il mio andirivieni è maledetto tra i denti dal sonno del portiere di notte.]
Notte nera sporcata di luci arancioni.
Cammino e fumo e parlo e rido.
Anche da solo.
Ho voci amiche che scorrono dentro.
E una città intera che mi fa da amante.


giovedì 4 ottobre 2007

Giorni di Con(v)(t)egno

La giacca mi dona, nonostante l'aria scanzonata e poco seria. Tutta colpa dei ricci, credo.
Il disagio lo nascondo bene, infilando le mani nel fondo delle tasche. Non sono tanto bravo a stare in mezzo alla gente.
Però ascolto. Ed imparo.
Non quello che vorrebbe insegnarmi la spocchia di certi baroni.
Solo il valore dei giorni. Che qua, tutti sembrano avere dimenticato.
Intorno mi girano femmine lustre. Sarà questo nuovo profumo o l'ipnotico dondolare della penna sul foglio. Faccio ritratti a biro di nuche.
- Scusi se la disturbo, ma non ho potuto evitare di leggere il suo nome sul cartellino -mi sussurra umida la più affettata di tutte- Ma lei è GaP, il figlio del famoso neurologo di Livorno?
- No, si è sbagliata, signorina! Non sono io.
- Ma sì, Daniele GaP, di Guido GaP, neurologo livornese!
- No, mi spiace. Solamente Daniele GaP, di Angelo GaP, radiotecnico italobelga.

[E quasi mi pento di non aver saputo mentire.]