mercoledì 29 aprile 2009

Del non dormire

Me lo sento.  Oggi diventerò campione mondiale di caffé indoor.
Ho appena fatto il settimo carpiato in tazzina da banco, coefficiente di difficoltà 2.4
Sempre che non mi fermi la gastrite o l'antidoping.
E non vi dico la barista quanto è orgogliosa di me.
Che la mia barista somiglia spiccicata uguale a Margherita Buy, solo molto più depressa. Allora sono contento di farla un po' allegra.
Ecco, ora mi preparo per l'ottavo. 
     

lunedì 27 aprile 2009

Nella pancia del Hangar

Qualche linea di luce in lento movimento e del fumo di ghiaccio secco nel buio. Tanto basta a scolpire nel cervello l'idea di una barriera, sculture di luce, appunto.
Avvicinarsi non serve a smentire.
Il corpo gira attorno alla luce come se fosse solida, si infila negli anfratti di buio che lascia, come ingressi nel ventre di un muro che è fatto solo di fumo.
Si prende un bel respiro, allora, e si tende una mano a toccare il nulla.
Lo si attraversa trattenendo il fiato, come una violenza alla realtà dettata dagli occhi.
Lo stupore sta proprio lì, forse, nello scoprire che le nostre barriere, forse, non sono poi così difficili da varcare.
Trattenere il respiro e fare quel passo. Andare.
Anche cadere magari.
Ché tanto, di là, c'è la solidità de I sette palazzi celesti a cui poggiarsi.
         

domenica 26 aprile 2009

Milano, 25 aprile 2009

Ed è un onore vedere sfilare quelli che restano, sfiancati dal tempo passato e dalla tristezza di questi tempi bui. Applaudire -che per dire grazie ai partigiani solo questo si può fare- e cercare in quegli sguardi ciò che a noi manca.
Poi cantare Bella ciao a squarciagola, al suono allegro degli ottoni. E commuoversi inevitabilemente un po'.
    

venerdì 24 aprile 2009

Puntini di sospensione

Seeee, lavorare, lavorare... Come se avessi tempo!  

[Citazione da ignoto]       

mercoledì 22 aprile 2009

Vita onirica di un insonne

Sono notti che si dorme poco.
Gli occhi sono pesti di sonno che basta mettersi a leggere due righe per sentire le palpebre chiudersi lentamente a fessura. Sgancio qualche sbadiglio a fauci spalancate, come un ippopotamo nella bagnetta. Lacrime di sonno si addensano sulle ciglia, formando una lente che annebbia le parole stampate.
Mr Blue. Che cazzo farà ora Mr Blue? Non si legge più niente, qui. Sbadiglio ancora. E decido che lo scoprirò domani.
Basta però un tuffo carpiato nel letto che gli occhi sono di nuovo sbarrati. Il soffitto è interessante, ma dura poco. Anche l'abbaino non è male, ci passano attraverso un ciulo e mezzo di pecore, pecoroni e pecorelle.
Passano così le ore.
A rincorrere pensieri che sono una guerra, pensieri che vorresti lasciare da parte. Almeno per un po'.
Tregua, mi pare che si chiami.
Allora non mi resta che forzare il sonno autosoffocandomi nel cuscino.
Svengo così, e mi infilo dritto in un sogno.

Siamo io e Wonder Woman.
Stiamo andando a cena fuori, insieme. Ce la ridiamo un sacco, io e lei, e ci guardiamo intensi quando le cingo distrattamente la vita.
Io mi sento un po' figaccione, come il colonnello Steve Austin. Però, purtroppo, sono sempre, solo me.
Il locale è carino, un posticino parecchio stiloso. Forse un po' troppo per il mio understatement tipicamente torinese, tant'è che, quando la faccio accomodare, non riesco a non dirle: "Però potevi metterti qualcosa di più adatto all'occasione...".
Lei mi guarda torvo: "Se non sei in grado di reggere il confronto con la mia personalità avevi solo da non invitarmi!". Sento come un gelo alla schiena, ma sarà solo il condizionatore alto.
Rimango di ghiaccio un istante, poi comincio a sbottonarmi i pantaloni. Me li levo proprio e li lascio lì, dietro di lei, vuoti.
"Beh, così adesso siamo in mutande tutti e due!", le dico.
Wonder sorride. L'ha presa bene per fortuna.
Mi sveglio solo quando lei mi chiede da chi mi faccio fare la ceretta.
Sarà l'imbarazzo.
È che mi vergognoa dirle che sono glabro di natura: la genetica di casa produce uomini lisci e femmine pelose come bertucce.
Tutta colpa dei raggi gamma, credo.
       

martedì 21 aprile 2009

Ritardatari

La serata è un piacevole alternarsi di birra, chiacchere e sigarette. L'infinita serie di sfide a Mario Kart ci tiene svegli e allegri fino a tardi.
Si ride di niente, come bambini.
Che
è poi solo un modo di fare il giro largo intorno alle cose importanti, che stan lì come monoliti, a darci la direzione. Ci si arriva sempre, alla fine, e li si scala a unghia.
Ma oggi no. Oggi si sta leggeri che basta
già la pioggia a infradiciare tutto.  
Ginocchia: e comunque la nostra è una generazione di post-adolescenti a rilascio controllato.
Fukuda: [serio] e te credo...   
Ginocchia:
in che senso, scusa?
Fukuda: tu l'hai provata la vita da adulto, no? Fa schifo la la vita da adulto! Una vera rottura di palle... 

domenica 19 aprile 2009

Etnografia del Vesuvio

Lunedì in Albis.
I fujenti sono rumorose ombre bianche che si muovono in branchi verso il vulcano. Ogni tanto si fermano davanti a un altare per fare danzare gli enormi stendardi di santi e madonne che si portano appresso. Il ritmo è quello della Canzone del Piave, una marcetta allegra sostenuta da una banda scalcagnata e costantemente fuori tempo. Alcuni, i più duri solamente, fanno ballare addirittura la madonna in trono.
Una voce all'orecchio mi dice che tra questi ferventi ci sono almeno tre ergastoli. Ma anche questo, forse, è folklore.
Più sù, a Madonna dell'Arco, la via che scende al santuario è gremita di gente che balla al battere della tammorra. Una complicità di gesti avvicina e allontana i corpi, li annoda, li fa scattare distante e girare, riunisce alle braccia che si agitano e mimano gesti che non comprendo. Le nacchere sottolineano il tempo dettato dal tamburo. Una voce canta una cantilena incomprensibile.
Il corpo comincia muoversi senza sapere, le gambe mimano il gesto di intrecciarsi. Avessi coscienza dei passi sarei già nel cerchio a cogliere la sfida del ballo, ma, purtroppo, conosco solo questi nuovi ritmi americani e allora è bene restare ai margini.
La curiosità mi porta fino davanti alla chiesa, in uno slalom di fumi di fritto e banacarelle di paccottiglia.
Sulla via, quelli che prima erano solo gruppi sparsi di uomini in bianco ora sono un fiume di latte che sale, da un lato, fin quasi in cima al Vesuvio e dall'altro, invece, si addentra nelle viscere della città. La gente che aspetta il proprio turno per entrare sembra non avere fine. Lungo la navata alcuni si inginocchiano e arrivano così fino all'altare, molti sono scalzi, i piedi piagati dall'interminabile marcia. Altri, addirittura, strisciano baciando il marmo a ogni sussulto del corpo. Alcune volte uno getta la voce e comincia un canto straziante.
L'effetto è impresionante e non riesco a non chiedermi quanta dell'ancestrale supersizione resista in noi umani. E cosa si deve fare perdonere quella donna che striscia la lingua per terra. Di cosa ha paura?
Mi dicono che questo e nulla. Solo una decina di anni fa c'era chi si faceva venire le convulsioni e sveniva.
Ma io credo di non volerlo vedere (anche se, invero, alla curiosità non resisto e rubo qualche appunto qua e là).
   

giovedì 16 aprile 2009

mercoledì 15 aprile 2009

In contromano

Ginocchia: comunque, checché se ne dica, tu sei uno stupido romantico!
Fukuda: [perplesso] già...   
Ginocchia:
[interrogativo]...
Fukuda: che poi io mi chiedo com'è che quando ero romatico e cercavo l'ammore ho incontrato una sequela di grandissime puttane e quando poi ho deciso di fare il gadano per professione ho trovato l'amore...   

sabato 11 aprile 2009

Sul perché il Giovedì Santo è il giorno più triste del mondo

La sera del Giovedì Santo si va per sepolcri.
Le chiese aperte, nel buio, buttano fuori una luce fioca e inquietante.
Adelina mi teneva la mano mentre camminavamo da una chiesa all'altra. Almeno tre, per tradizione o per voto, ora non ricordo bene. L'altra mano la tenevo in tasca, a stringere una piccola astronave fatta di lego, con il suo piccolo pilota in tuta spaziale rossa. Il rosso era il colore degli eroi, allora, che forse non avevo ancora cinque anni.
A San Secondo ero arrivato stanco e mezzo addormentato. Cristo, avvolto in un panno rosso, si stagliava sui cocci azzurri di una vetrata circolare e mi fissava attento, con le due dita pronte e fumanti come una pistola. Intorno, solo il mormorio delle preghiere e l'odore dolciastro dei fiori di aprile.
Mi sedetti su un gradino di marmo, mentre Adelina si inginocchiava in preghiera. Il culo gelato e la testa calda del fumo delle candele.
L'astronave uscì dal hangar della tasca in silenzio. Il marmo lucido era perfetto per le manovre di decollo: un breve giro della pista, come a prenderne le misure, una rincorsa veloce sulla traversa di alabastro e poi fu il cielo.
Se Dio stava in cielo e noi stavamo a casa sua, quale modo migliore per raggiungerlo se non un volo diretto?
La luna di un ostia avvolta da raggi dorati mi fece da rotta. La navicella evitò accuratamente una pioggia di asteroidi proveniente da Beghina-ß24 e puntò i suoi faser contro la base nemica Bizoca-7.
Nel campo gravitazionale della luna, però, la tempesta magnetica dello sguardo di Adelina mi fulminò. Un raggio traente di inaspettata potenza mi afferrò per l'orecchio, riconducendomi al mio angolo. La nave era perduta per sempre, nel buco nero di una borsa.
Adelina aveva solo due eroi: uno era dio, l'altro papà. E nessuno poteva toccarglieli.
Io, che ancora non ne avevo trovati, li cercavo nello spazio profondo della mia fantasia.
Quella sera, invece, mi rimase solo una panca di legno e la tristezza macabra delle orazioni, infilate nelle orecchie come una tortura. Cristo moriva e io cominciavo da subito a perderlo, nonostante quella fervida madre.
All'uscita mi colse una sorta d'inquietudine sorda e nel fondo dello stomaco si svegliò sibilando una cosa nera, che somigliava alla paura.
Persi, in quel volo verso l'infinito, la possibilità di salvarmi.
Fu così che cominciai a dedicarmi all'attento studio di Marx.
  

venerdì 10 aprile 2009

Pensieri privati per l'Ammiraglio Esse

Piangi, Esse. Piangi ora, e più che puoi.
È tuo diritto stare male e contorcerti di dolore. Scomporre la tua figura esatta.
Le lacrime che ora tieni dentro sono l'acido che corroderà la sottile matematica del tuo essere, ciò che sfaserà gli ingranaggi del bilanciere che ti tiene in equilibrio sull'acqua mossa.
Non c'è vergogna nel piangere. Dignità, piuttosto, di un dolore che non ha misura.
Lasciati sostenere da chi ti sta vicino. La forza delle tue gambe l'hai già dimostrata in guerra e ora è finito il tempo delle prove.
Aggrapparsi aiuta a respirare. E tu, che l'asma la conosci, sai quanto vale ogni respiro.
Non dimenticare di parlare. Ché è dai denti che ci si libera del peso di sopravvivere a chi si ama.
Lascia che tutto fluisca fuori di te con la naturalezza del ghiaccio che si scioglie. Tenere non serve (io che sono ancora lì, a combattere quell'ultima battaglia che non si poteva vincere, lasciato indietro da chi ha avuto la naturalezza di non nascondere il dolore, non posso tacertelo).
Un'ultima cosa, infine: cerca dentro te qualche ricordo da tenere stretto per le mattine in cui i sogni ti riporteranno a ora. La malattia è puttana e si mostra sempre avanti a tutti, ma è comunque l'ultima arrivata. Spogliala dell'importanza che si dà con un
lungo balzo all'indietro.
Ora posso dirlo, la cosa che più mi duole, ora che gli anni sono passati numerosi e stanchi, è di far fatica a ricordare mio padre in piedi. E non è giusto.
Ogni volta che vuoi, io sono qui.

[Affinché, o meglio, nella speranza che tutti i miei errori possano esserti di una qualche utilità.]
         

mercoledì 8 aprile 2009

L'Aquila

Sono giorni di grande tristezza, e senso di impotenza. Di immobile c'è solo il groppo in gola.  

sabato 4 aprile 2009

Sarà capitato anche a voi

Di avere una musica in testa, intendo.
Ecco, questa è nella mia e non si leva più da lì. Da una settimana.