giovedì 26 febbraio 2009

Di pancia

"A me è sempre piaciuta la tua pancia a forma di scatola", mi fa Fukuda mentre prendiamo il caffè.
"È il mio IO ancestrale-marsupiale che me la impone! Non è una pancia, è una tasca", rispondo tentando di spiarmi il profilo in una vetrina. Ma si vede che ci sono rimasto male.
Soprattutto la signorina che c'è in me ne soffre, ché lei cerca di tenermi guinzagliato, ma si sà, a campari e olive non resisto.
E non è una dieta proprio sana.
"Però dev'essere un comodo portaoggetti", incalza lui divertito.
"Belletettine" mi verrebbe da chiamarlo facendo anche un'eco di gnegnegne alla fine, ma taglio corto buttandola sullo sportivo: "Dici che devo riprendere ad andare a correre?".
"Se vuoi continuare a pedalare".

E dopo il lavoro sono lì che annaspo. Un passo dietro l'altro.
Il fiume mi scorre a sinistra mentre il sole si sgonfia lentamente, dalla parte opposta. Lentamente si scioglie sulle montagne, poi sulle case, cola fino agli alberi, mi scivola sugli occhi e sulle caviglie addolcendomi il passo.
Nell'arancione brillano gemme già grandi. Forse ha ragione chi mi dice che la primavera non è poi così lontana, nonostante l'aria tagliente sulle mani e sulle labbra.
Dietrofront, allora.
Il fiume a destra viaggia placido e grigio, molto più veloce di me.
Ma ho passi pesanti, ora che torno. Ogni passo è un pensiero che ha un nome. Ogni passo è una cosa che manca.
E finalmente ricordo perché ho smesso di correre: le gambe in avanti mi buttano, per compensazione d'equilibrio, i pensieri all'indietro.


Questo, un giovedì di dolore alle chiappe. Metaforico e non.                          

sabato 21 febbraio 2009

giovedì 19 febbraio 2009

Cose che non c'entrano nulla

A Picciridda è un posto arancione dove si mangia piuttosto bene.
Le pareti sono coperte di Donnafugata e viene subito voglia di caldo e di bere.
La pasta con le sarde è sfiziosa, con quelle scaglie abusive di mandorla a far coppia con l'uva passa e il finocchietto, ma quella di Adelina -versione autarchica villarosana- vince sempre: l'ingrediente segreto e quel giro breve nel forno la rendono eccelsa.
E ricorda, quando leggi 'ingrediente segreto' devi muovere le dita come se stessi facendo una magia. Più o meno così, ecco!
Ma è masticando una serie di argomenti tabù che affiora dal fango della mente una vecchia filastrocca, il ricordo di mani grandi come pale di ficoe il gusto del gelso:

Finucchiddu di campaga
mastro Alleuru s'allagna
s'allagna pe' la zita
chi la vole chiù pulita,
chiù pulita non ce n'è,
pigghiattilla cumu iè iè.


Rido. E mi torna finalmente la voglia di cucinare.
Stasera riso e zucca, per tener vivo l'arancione.
   

mercoledì 18 febbraio 2009

Codice della strada

Il parcheggio è la mia maledizione.
C'è, in quel girare a vuoto, un ritmo malvagio, un rimestare continuo che mi cava dal fondo i grumi.
Come se tutti gli ostacoli superati fossero nuovamente avanti. Come se nulla fosse stato fatto, ancora.
I mostri sono sempre gli stessi: la bestia feroce -il grande predatore dentro la mia testa- che credevo domata affonda di nuovo i denti nella carne, le spire che pensavo dipanate attentano alla gola, crollano addosso muri già scavalcati da tempo.
Perchè non supero mai niente che non torni poi, all'improvviso, mentre distratto taglio una rotonda sul cordolo. Mentre mi affanno con la testa vuota per tre metri di spazio. E impreco. Contro chi non sa di ascoltare e quei muri gialli che mi fanno da casa.
Che poi è solo un vano maledirmi. Maledirmi per non essermi accorto in tempo che, tutti i passi avanti fatti, li ho ripercorsi all'indietro mentre dormivo.
Allora non c'è nient'altro da fare che mollarla lì, Maruzzella, nel mezzo di un incrocio e andare via.
Una multa e qualche insulto non è poi un gran prezzo per lasciarmi in pace cinque minuti.


[Che debba cominciare a muovermi in bus? visto che le bici me le rubano...]   

lunedì 16 febbraio 2009

sabato 14 febbraio 2009

Delle feste comandate

Diamo un senso a questa festa inutile.
Ché io, San Valentino, non ho mai potuto soffrirlo. Odio i baci perugina -quella cazzo di maledetta nocciolina che mi si incastra tra i premolari- e le torte a forma di cuore. Le frasi melense dei bigliettini, l'abuso indiscriminato di minchiate rosa e i lucchetti attaccati a ogni palo della luce.
Allora me ne andrò un po' in giro per la città: guardare, ascoltare, annusare aria finalmente smossa. E, magari, limonare duro in un palchetto del Teatro Carignano.
Comunque sia, auguri a te ammòrebbello.  

venerdì 13 febbraio 2009

Sulle differenze tra reading e lecturing

Lo scovo quasi per caso, ronzando curioso come una zanzara intorno alla luce (della centrale elettrica, naturalmente!). È il reading di uno scrittore a me ignoto accompagnato da un cantautore che mi manda fuori.
Al Circolo dei Lettori c'è la solita aria di alta borghesia alla piemontese: un po' di puzza sotto il naso, ma nulla che non abbia già odorato da vicino. I colori vivaci di alcune ragazzine stemperano l'eccesso degli stucchi.
Un lampadario enorme grava su di noi.
Si sta bene, stasera, immersi in questo colloide di carampane e adolescenti senza soluzione di continuità.
Quando al leggio compare Cavina non riesco a trattenere una risata:
- Ma questo io lo conosco! - mi scappa da dire.
È stato pochi mesi fa, quando a Torino c'era Portici di carta: in una delle innumerevoli bancarelle mi ero lasciato sedurre da La schiuma dei giorni mentre un'affabile signora cercava di convincermi ad acquistare Un'ultima stagione da esordienti. Lui era lì che, piuttosto imbarazzato, si godeva la contesa.
- Non me ne volere - gli dissi - ma tutti mi parlano così bene di sto cazzo di libro qua.
- Sì, Boris Vian è meglio - rispose con ammirevole modestia.
- Allora io mi fido. Anche se questo libro sul calcio, beh! il calcio è il calcio...
- Ma è calcio di ragazzini.
- L'unico che ci rimane. 
E adesso che Vian l'ho letto, caro Cristiano, posso solo dirti che forse era meglio Cavina. La schiuma dei giorni, come ho già commentato altrove, la schiuma l'ha fatta fare solo a me.

Poi è arrivato Vasco Brondi, imprecando contro le sedie stile impero, con una chitarra e una bottiglia di vino. Quando ha cominciato a cantare in quel suo modo un po' stonato io sono piombato anni luce indietro, al tempo in cui si stava  giorni interi chiusi in un appartamento di periferia a fumare e scopare.
E guardare fuori un mondo che continuo a non capire.

giovedì 12 febbraio 2009

A scuola di ballo

Il cielo giallo si pianta rovente tra gli occhi. Come la traiettoria esatta della pallottola di un cecchino. Bang. E non c'è più nulla oltre il grigio scuro della notte sul giallo del fosforo.
Nelle orecchie tuona l'abbaiare dei cani, sibila l'aria ferita dagli spari. Esplosioni scandiscono la marcia del tempo.
La poltrona non basta a tenermi ancorato alla realtà di un cinema di periferia.
Il colore, denso, cola su ogni cosa; mi avvolgono i movimeti nervosi dell'animazione. Un'altra raffica e sono morto, completamente ingoiato dalla storia.
L'immaginario che cela l'orrore rende l'orrore ancora più vero. La memoria nasconde. Per difendere, forse.
Ma basta un sogno di cani e la voglia di fare domande per non lasciare cadere, ancora una volta, il passato nell'oblio.








Bisogna guardare fino in fondo: la realtà è ben più crudele dell'immaginazione.
E, alla fine, si fa fatica a non stare male.


venerdì 6 febbraio 2009

Le parole di troppo

La novità è che si muore, gente! Si muore.
E si muore pure male.
Il corpo è una macchina ben miserabile quando s'inceppa e le sue decantate meraviglie si trasformano in dolore. In fondo non siamo molto più di questo: un sacchetto di carne con dei tubi dentro. Per quanto quella scintilla di autocoscienza -chiamala anima, chiama intelligenza, chiama un po' come cazzo ti pare- tenti disperatamente di elevarci al di sopra della vita, altro non siamo che sangue e visceri e quattro impulsi elettrici a basso voltaggio, con il programma molto semplice di strafocarci e riprodurci. Poco di più.
Si muore, cazzo, e lo ripeto. Si muore. Perchè qua ce lo stiamo dimenticando tutti.
La gente si aggrappa disperatamente alla vita, anche a quella altrui, con grinfie da megera. E la smania falsa di difenderla, questa vita, non fa altro che avvilirla.
Mi ero promesso di non parlarne più, nauseato dallo starnazzare ipocrita dei media. E, soprattutto, per il rispetto profondo che nutro nei confronti di quell'eroe che è Giuseppe Englaro. Tace lui, chi sono io per dire? 
Ma qualcosa mi ha fatto di nuovo tremare di disgusto e i denti si sono digrignati, ma non sono stati capaci di mordere la lingua.

La fortuna, a volte, è avere ogni mattina quattro neurologi a portata di voce. Gente con i controcoglioni sotto, che si confronta con la malattia e la morte quotidianamente.
Così, oggi non ho resistito e, invece di discutere dei nostri miserabili problemi di marker molecolari, ho chiesto loro di spiegarmi che cos'è il coma vegetativo, "niente opinioni personali, per favore, solo fatti scientificamente provati!".
Ho imparato che la coscienza può morire senza che la macchina-corpo si spenga, ovvero che ciò che muove il cuore, che spinge le costole ad alzarsi e abbassarsi, che strizza l'intestino e ci fa cagare è una parte del sistema nervoso atta al mantenimento dell'omeostasi. Nulla più.
Non c'è la vita che si brama di difendere, lì.
Solo la fine meccanica del corpo.
Ho imparato che, checché ne dica la gente, Eluana è morta diciassette anni fa. Aveva ventidue anni e credeva che non fosse giusto accanirsi nel tentativo vano di protrarre una non-vita. Rimane di lei l'involucro e un insieme di riflessi che, non sostenuti dalla terapia -il sondino nasogastrico è terapia!-, si spegnerebbero.
Non c'è coscienza e non esiste provata possibilità del suo recupero.
Eluana non morirà di fame e di sete tra atroci dolori, come vogliono farvi credere, perché Eluana non c'è.
Non c'è più da tanto.
Abbiate solo pietà delle sue spoglie e di chi la amata.

La morte è, per i vivi, una cosa difficile.
Un vicolo cieco da cui raramente si esce.
E chi si ostina a rifiutarla in maniera vigliacca non fa altro che proiettare le proprie paure e la propria incapacità di accettare la fine sul corpo di qualcun altro.
Nonostante possa sembrare crudele, lasciare andare qualcuno è un atto d'amore.
E non si può fare altro, a volte, che affidare la nostra volonta a chi ci è vicino.
Ora, la questione si fa personale.
In tutti i sensi.

Mio padre mi chiese di aiutarlo a morire tre volte.
La prima, lo fece con quell'aria da stronzetto che ho imparato a usare anch'io per sondare un terreno minato: dire la verità facendo finta di scherzare, mezzo sorriso, e poi trincerarsi dietro l'ironia se il gioco si fa troppo faticoso da sostenere. Ma, allora, c'erano ancora margini di miglioramento e qualche speranza falsa a cui aggrapparsi.
Me la sfangai con una risata.
La seconda, fu quando la speranza ci abbandonò definitivamente.
Ma c'era ancora Adelina che non accettava di perdere e bisognava insegnarle a stare sola.
Ostinata nel gioco e in dio non sapeva arrendersi. Provare a spiegarle le ragioni della dignità fu una delle ultime fatiche che divisi con lui.
La terza volta, mio padre non mi chiese niente.
Semplicemente rifiutò cibo e cure.
Sorella Uno, Sorella Due e io lo tenemmo lontano dal troppo amore di mia madre e dall'eccessiva solerzia di qualche infermiera.
Furono necessari due mesi di incosciente agonia.
Era settembre e c'era tanto sole.


Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l´individuo è sovrano.
John Stuart Mill, La libertà



[E poi c'è questo, che non mi pare cosa da poco! E anche questo, da ricordare! In ultimo, un invito alla lettura.]
       

mercoledì 4 febbraio 2009

About Friday

Direi che non ha funzionato.
O meglio, l'intenzione di buttarla sulla felicità è stata messa a dura prova da un sabato iniziato all'insegna di una multa, di una ruota squarciata di netto su un gradino e del ruotino fatidicamente sgonfio.
Difficile andare lontano così, nonstante le migliori intenzioni.
Anche perché senza ruote non si va da nessuna parte!
Inoltre, iersera, ho trovato sul parabrezza un altro biglietto bianco che recitava all'incirca così: "Lei deve avere vissuto a lungo in Asia, perché un parcheggio del genere poteva farlo solo un mongolo. Con simpatia" e di seguito, come firma, il disegno stilizzato di una betoniera.
Che debba rivedere qualcosa della mia personale interpretazione del codice della strada?
Comunque, l'ottimismo non può morire.
Ma ammalarsi gravemente sì.
E poi diciamocelo, la joie de vivre è decisamente sopravvalutata! Mica ho la sindrome di Pollyanna, io. Anzi, direi che sostanzialmente la odio, quella là!