giovedì 24 dicembre 2009

Gadus morhua

Checché se ne dica, il baccalà non è un pesce.
Ma cresce, così come lo vedete al mercato, sui baccalalberi. I baccalalberi, che mettono radici direttamente nelle saline, sono una rara varieta alofila del pistacchio (Cazzo!, erano anni che volevo dire
specie alofila!). A inizio estate, il baccalà - che non è un pesce - si tuffa nelle reti da pesca disposte sotto i tronchi. Un doppio carpiato con avvitamento, in genere.
Poi viene raccolto, conservato e cucinato da mia nonna.
Chiaramente, mia nonna è l'unica a conoscere il segreto del baccalà che non è un pesce, così che anche quelli che non mangiano il pesce possono gustarsi il baccalà con sommo gaudio e piacere e senza rompere bizzarri giuramenti vegani e altre
simili amenità.
E la dimostrazione scientifica che il baccalà non è un pesce è che lo si accompagna con il Rosso di Barbarano, mica con uno sciapo bianchetto.

E comunque Paolo conte si sbagliava: che il baccalà non è un pesce l'ho già detto, vero? Che il maiale non è carne ve lo racconterò la prossima volta.

« "Pesce Veloce del Baltico"
dice il menù che contorno han
torta di mais e poi servono
polenta e baccalà
cucina povera e umile
fatta d'ingenuità
caduta nel gorgo perfido
della celebrità »

(Paolo Conte, Pesce veloce del Baltico) 
    

martedì 22 dicembre 2009

Geometrie non euclidee

Il cielo pesava bianco sulle loro teste scure, strette nei cappelli neri e infossate nei baveri alzati delle giacche. Il freddo sembrava strappar loro di dosso sciarpe e cappotti, facendoli sentire nudi e scalzi. I denti battevano un ritmo gelato che mangiava le parole.
Fumare era cercare calore.
I primi fiocchi arrivarono lentamente sui loro nasi arcuati, che ondeggiavano piano sulla strada di casa. Due sagome zoppicanti d'uccello e la sensazione di avere sbagliato rotta. La migrazione di un fallimento.
- Nevica! - disse il primo con voce roca, che cercava di mascherare lo stupere infantile che gli incollava gli occhi al cielo.
Neve sottile come farina sbiancava le barbe lasciate lunghe.
- Già - rispose l'altro con il viso rivolto alle scarpe.
Il gesto naturale fu quello di aprire il palmo, come a ricevere un'elemosina. Gli occhi volarono a spiare la generosità del cielo.
Un fiocco minuto mostrava, alla luce di un'insegna Tabacchi, la sua geometria perfetta.
Non era un fiocco di neve, era IL fiocco di neve. Come se tutta la neve del mondo si fosse condensata in quella forma unica di ghiaccio, che ne era la sintesi esatta.
- La geometria è la lingua di dio - disse al compagno che non lo ascoltava più, ma danzava sulle impronte lasciate da altri. Passi ricalcati, per tenere i piedi all'asciutto.
Nel silenzio della neve, si accese il calore di una voglia.
Allungò il passo verso casa, lasciando indietro l'amico che arrancava. Il freddo non lo sentiva quasi più. Sentiva solo la fame di arrivare al tavolo, riprendere in mano i vecchi libri di matematica e cercare l'equazione che gli avrebbe spiegato la forma del mondo.  
   

venerdì 18 dicembre 2009

Neodarwinismo critico

Fa freddo. E svegliarsi somiglia più a un castigo che a una possibilità.
Dormo, avvolto in sette coperte di lana riciclata -erano maglioni, sciarpe o guanti, prima che la nonna ci buttasse dentro il suo tempo lento-, e affilo le unghie contro la parete come fosse corteccia d'albero.
Il letargo è una chiara manifestazione della superiorità degli orsi.
E io sogno solo di affrancarmi dalla specie umana.
  

martedì 15 dicembre 2009

Nostalgie

Ginocchia: e tu? ti ricordi com'era bello una volta?  
Fukuda: no! 
Ginocchia: ...     
Fukuda: che no, no era bello. Ma di sicuro era meglio. 
             

mercoledì 9 dicembre 2009

Terrazza panoramica

C'era il cielo, che si lasciava crollare piano sulla città appena accesa. E c'erano le arance aggrappate a rami troppo verdi, che mi sorridevano come fossero in posa per la memoria, per una fotografia da scattare con gli occhi, da lasciare imprimere nei sali d'argento di un pensiero irrazionale. Una fotografia al contrario, con le spalle voltate al panorama perfetto, invaso da milioni di occhi, da milioni di dita tese a indicare, da milioni di nasi allineati alle dita, come pronti a sparare un 'Oh' di meraviglia dalla bocca socchiusa.
Di spalle, sentivo gli obiettivi che raschiavano avanzi di luce dai tetti inermi.
Il buio calava lento, danzando su un ritmo di click, e toglieva vigore ai colori e a me. Solo le arance sembravano vive in quella penombra.
La punta di una sigaretta guidava i miei passi come un faro, il respiro era il suo giro.
Oltre la ringhiera, troppo spazio da abbracciare con uno sguardo solo.
E c'ero io, voltato di spalle, estraneo alla linea tracciata dagli occhi degli altri, che seguivo l'odore di aspro del vento:
- Buono questo, vero? - mi dicevano dita chiuse su uno spicchio.
Come un'offerta di felicità.
  

giovedì 3 dicembre 2009

Apotropaico n°7

Tutto è cominciato da uno specchietto.
Non dal solito specchio rotto e i suoi proverbiali sette anni di sventure, ma da un retrovisore divelto che pendeva come un osso spezzato sulla portiera verde sporco.
Un "fanculo che sfiga!" e ventitré giri di nastro isolante pensavo che sarebbero bastati a rimettere a posto i conti col destino - cinico e baro! - e in sesto lo specchietto, come una steccatura fatta alla buona. Tanta buona volontà.
Poi, invece, è venuto il giorno della carta di credito. Prima che il servizio antifrode avesse la compiacenza di telefonarmi, qualcuno si era divertito a fare acquisti ai magazzini La Fayette mentre io guardavo la pioggia prepararsi a cadere dalla finstra di casa. Facendo i conti su come arrivare a fine mese.
Che poi, non fosse stata la mia, di carta di credito, io li avrei anche ammirati questi che si sono scofanati un migliaio di euri di cene di lusso.
A denuncia fatta e adeguatamente rassicurato che tutto si sarebbe risolto con la restituzione del maltolto, però, è morto suicida il pc (non il caro, vecchio partito comunista di cui ancora sento nostalgia, che era già morto tanto tempo fa). Come si fosse sparato un colpo in testa.
Il tecnico, tentata una fallimentare rianimazione, ha cominciato a dissanguare anche me che, obnubilato da un poco giudizioso dente del giudizio e da una dose eccessiva di [(2,6-dichlorophenyl) amminico] - benzeneaceticacimonosodium 2, perdevo ogni velleità di resistere.
Il dentista ha strappato via il dolore con un colpo secco del polso, come cavasse un avanzo di picciolo da un'arancia. Clack. Io ho solo bestemmiato. Che non avevo altre parole nel mazzo da cui scegliere e poi combinare nomi di santi e animali m'è sempre riuscito bene.
Ora, con un dente in meno, mi sento più lieve.
Solo non riesco più a togliere le mani dalle tasche, nella speranza vaga che un gesto apotropaico possa salvarmi.
   

giovedì 26 novembre 2009

L'odore delle parole

Le mani si bloccano a mezza strada, tra le tasche e la bottiglia d'acqua frizzante, immobili nello stupore. Tiro su col naso, forte, un paio di volte, come una bestia che riconosce nell'aria qualcosa di familiare.
Un odore che non dovrebbe esserci, però, nel vuoto di una scrivania riempito solo di carta, e polvere, e caffé di pessima qualità. Di pelle, di lana, di nebbia che entra dalla finestra.
Eppure si infila, nel getto di parole buttate all'indietro e nelle risposte secche come uno scavare, un odore di mare morto. Odore di granchi lasciati marcire in una pozza di sale, di gusci svuotati dalla fame dei murici, di alghe seccate dal sole. Un profumo velenoso di marcio che quasi mi fa sboccare. Un profumo che avevo dimenticato di amare.
A volte, le parole, si sentono col naso. 
Col naso mi ricordo chi sono.
         

mercoledì 18 novembre 2009

Tra le gambe delle sedie

E poi, d'improvviso, venne il buio.
Che non era proprio scuro, però, avrebbe detto qualcuno sicuro del proprio sguardo. Almeno a vederlo da fuori. C'erano i lampioni che illuminavano fiaccamente gli alberi nudi, le televisioni brillavano nervose dagli occhi dei palazzi e alcune stelle faticavano per mostrarsi attraverso lo spesso strato di polveri che faceva da scudo alla città.
Ma era nera, dentro, quella notte lì. Da lasciare senza fiato.
Come se tutto ciò che il corpo conteneva - cuore polmoni fegato milza reni intestini e salcazzo cosa d'altro ci sta dentro - si fosse sciolto in un buio di pece che risucchiava anche gli occhi.
Alfonso, seienne stentato e spigoloso come un agrifoglio, si infilò istintivamente sotto il tavolo. Era la sua tana, protetta dalle gambe delle sedie fitte come le sbarre di un cancello in ferro battuto. Da una feritoia, sottile poco più di un dito secco di sua nonna, sgranò gli occhi sul niente.
Una specie di paura vischiosa gli si appiccicò alle palpebre, accecando completamente ciò che gli restava della vista. Egli gridò, sbattendo con violenza la testa sul legno che gli faceva da soffitto.
A tentoni, raschiando con le unghia rosicchiate fino ai polpastrelli, tento di cavarsi via quella sostanza viscida che sembrava colata dai suoi stessi pensieri. Ma in vano.
La sua tana sembrava essersi fatta una gabbia, tanto era lo sbattere delle sue ossa contro le sedie.
Con un soffio di fiato, l'ultimo che si sentiva in gola chiamò: 
- Ehi tu! - lasciando che il suo orgoglio spinoso andasse ad appuntirsi altrove.
Davanti ai suoi occhi comparvero improvvisamente due gambe sottili ed eleganti, sicure nell'incedere verso di lui. Calzavano stivali bassi di cuoio, adagiati mollemente sulle caviglie.
- Ehi tu! - rispose soltanto, ma con una voce che rideva.
La luce gialla di una lampada si insinuò improvvisa nella selva delle sedie.
Alfonso non riusciva più a ricordare le parole che aveva ascoltato, ma le foglie gialle dei liriodendron tulipifera stese a terra come un tappeto non gli erano mai sembrate così belle.
             

venerdì 13 novembre 2009

Quarantadue

La fermata è gremita da una piccola folla che sporge la testa sulla carreggiata per vedere se, in lontananza, la foschia disegna la sagoma di un autobus. E che poi subito si ritira sbuffando sulla banchina, come dentro il guscio di una tartaruga. Le auto corrono affilate.
Il quarantadue, invece, è sempre vuoto. Tutti si lasciano ingoiare dal famelico trentatré - dica trentatré! - abbandonandomi alla mia attesa solitaria.
Fumo. Bastano due boccate che il pullman mi stride nelle orecchie. 
Una signora, un vecchio cappotto vinaccia e due sporte cariche di broccoli, tira fuori dalla borsetta un telefonino scintillante e comincia a giocare a qualcosa. Si accanisce sui tasti, impreca in silenzio.
Un naso lungo affononda nella pagine di un libro. Una curva di naso che mi trapassa come un coltello. I capelli nerissimi sono indifferenti ai sobbalzi del bus, solo i suoi stivali marroni paiono innervositi dal continuo cercare una posizione dei piedi. Cigolano, quasi.
Un ragazzo con gli occhiali di plastica nera tiene il tempo del suo ipod con le dita.
Accanto a me, un signore si getta di peso sul sedile pieno di scritte "Ti amo". Lo guardo di traverso e mi si oscura la faccia: la sua somiglianza con Felt*i è imbarazzante. La mia smorfia di orrore, involontaria. Mi guarda e sgrana gli occhi, come a chiedermi scusa, come a dirmi che non è colpa sua. La natura matrigna, uno scherzo del destino, una serie di eventi casuali che hanno messo in quel modo il naso, la bocca, gli zigomi, ingrigito i capelli, svuotato di senso l'espressione degli occhi.
Distrattamente mi alzo,  la scelta degli occhiali è già un concorso di colpa.
Passeggio l'ultima fermata.
          

martedì 10 novembre 2009

Status quo

Emicrania da eccesso di burocrazia. 

[Che io gli darei fuoco a tutte quelle carte inutili che ti obbligano a fare.]
   

sabato 7 novembre 2009

Sala nove

Arrivo al cinema che è troppo tardi per il primo spettacolo e troppo presto per il secondo. In una specie di limbo perfetto solo per birra e patatine, ma ho già cenato e a volte la gola non basta.
Che il prossimo che mi dice che in medio virtus stat se ne può andare affanculo fin da subito. In medio non c'è niente. Solo 'La battaglia dei tre regni'.
Un film che quando esci hai subito voglia di provare ad abbattere un cavallo con una spallata, come hai visto fare a quel generale con la barba che sembra una specie di tanuki
Oggi andrò al maneggio.
Ma come si diceva ne 'Il caricatore':
il cinema è un altra cosa!  Proprio un'altra.       

mercoledì 4 novembre 2009

Manuale per un uso consapevole dei cachi

Aprì il frutto con un gesto secco delle dita, cavandone via il picciolo verde oliva come aveva visto fare migliaia di volte, in novembre, da centinaia di mani. Era uno strappo leggero della carne che lasciava un piccolo foro circolare laddove prima c'era una rosa di foglie dure.
Il frutto, con il ventre spaccato, giaceva riverso su un piatto di ceramica bianca, un cucchiaino riposava proprio lì accanto, sul tavolo nudo.
Si ricordò allora, nel brillare dell'acciaio, di tutte le volte che qualcuno aveva tentato di insegnargli a mangiare i cachi: il cucchiaino che affondava nella polpa e la strappava per portarla alla bocca o il coltello che ne faceva spicchi dalla geometria esatta. Ma non era mai riuscito a imparare a non sporcarsi la punta del naso quando si perdeva in quel piacere dolciastro.
Allora rise, pensando a tutti gli insulti presi per le camice macchiate, e raccolse il frutto nel palmo. Lo soppesò con attenzione quasi eccessiva. Era molle e profumava di brina, arancione che occupava l'intero spazio degli occhi. Infine lo portò alle labbra e cominciò a succhiarlo.
Lentamente, le dita e il muso si tinsero di una viscida patina chiara mentre del frutto rimaneva solo la pellecchia svuotata e due semi sputati con stizza sul tavolo.
Quando le porse le dita da leccare, lei sorrise sgranando gli occhi di voglia.
Essere rimasto selvatico era la sola cosa buona che avesse mai fatto nella vita.
           

martedì 3 novembre 2009

Ginkgo biloba L.

Cerco foglie gialle, alte fino al ginocchio, come si cerca acqua trasparente che non si tocca. Per la meraviglia di un guizzo.
I piedi strascicati lasciano solchi bruni che frusciano alle spalle. Ma quel che c'è dietro non conta più. È terra arata che darà frutti che non saprò.
Il mio posto è avanti da qui. Un passo oltre.
A godere il piacere disperato della pioggia addosso e di queste foglie gialle di ginkgo, in cui le caviglie sprofondano molli.
È arrivato l'autunno.
E me ne accorgo solo oggi, nella nostalgia della mia casa lontana.
Nell'aria, profumo di riso grezzo e vino nobile di Montepulciano.
         

giovedì 29 ottobre 2009

Pax familia

Sorelladue ha occhi da indiana del Punjab, come due prugne castane che le occupano l'intero spazio del viso. Quasi me ne stupisco a vederli così grandi addosso a me, dopo tutti questi mesi. Senza rabbia, dopo tutti questi anni.
Mi scruta e ride un riso maltrattenuto che le piega la bocca verso il basso. No, non ci somigliamo molto se non nella durezza delle intemperanze.
L'incanto del rancore che la faceva ringhiare alla mia vista s'è come sciolto nel tino profondo delle mie occhiaie.
- Dovresti dormire - mi dice.
Sorrido. E con un cenno del capo le indico Ade che cuce
e ci guarda. La precisione dell'ago che infilza la stoffa le dà la sicurezza che la matassa ingarbuglaita delle nostre voci fa vacillare. Seguire le linee tracciate dal gesso è la sua vocazione.
- Ma come fai a parlare con quella? - chiedo a Sorelladue.
- Ma lascia perdere - risponde accorata - che sai che m'ha detto l'altro giorno? Che io e te dovremmo andare in ritiro spirituale per ritrovare noi stessi. Con Marrazzo.
             

martedì 27 ottobre 2009

Teoria e tecnica dell'autoinganno secondo il Rage

Rage: beh, certo, non farsi domande è una splendida soluzione. Ma, a parte il fatto che è pura vigliaccheria, è una prassi tipicamente femminile. Tanto le domande prima o poi tornano, tanto vale cercare di risolverle subito. Poi, insomma, ingannare se stessi non solo non può funzionare ma è da decerebrati (perchè ingannare qualcuno ha effetto perchè lui NON SA, ma se inganni te stesso ti inganni sapendo che ti stai ingannando, quindi direi che è come fermarsi a giocare alle treccarte nel sottopassaggio della stazione sperando di vincere).     
Ginocchia: beh. Io mi ci fermo sempre.
Rage:  [perplesso] ...
Ginocchia: a guardare.
Rage: tu hai incrontollabili istinti autodistruttivi.                

venerdì 23 ottobre 2009

Commilitone Elle

Gli arancini della zia Elle sembrano piccoli soli roventi. Solo a guardarli la pelle si arrossa, il sangue si scalda e la pancia si apre a voragine.
Il profumo dello zafferano trema ancora nell'aria, mentre mi spalmo due gocce di protezione venti sulla faccia.
Zia Elle mi guarda di traverso, le mani indaffarate ad appallottolare sistemi solari di piselli e ragù.
[Che poi, secondo me, la storia del
nucleo solare è un po' una fandonia raccontata agli ingenui. Ché al centro del sole di sicuro c'è la fusione nucleare di piselli, ragù e riso giallo. Mica altro.]
Le sue dita, gli anni si contano in sottili increspature di pelle, si muovono comunque veloci, una sequenza di gesti che provo a rubare con gli occhi. La lingua, però, è ancora più rapida: 
- Azzì, stai zitto ché io
già lo so. 
- Ah sì? E cosa sapresti tu?
- Quello che non dirai mai.
Sorrido e le spio il ruotare del polso che chiude la sfera di riso. Poi scosto una seggia e mi accomodo al tavolo, dove magicamente sono comparsi bicchieri e bottiglia.
Verso da bere e continuo a non dire.
É come una rimpatriata tra veterani di guerra. Non serve parlare.
   

mercoledì 14 ottobre 2009

Lessico familiare VII

Adelina mi osserva disorientata.
Il suo sguardo liquido scivola sulla mia superficie d'alluminio e fa pozzanghera ai piedi. Ha occhi verdi e grandi che sono belli da fissare, nonostante la malinconia della bocca. Sono gli stessi occhi che mi ha ficcato in faccia, alleggerendo il volto duro di mio padre. Ora sono questo. Una faccia da uomo con due occhi toppo grandi per nascondere qualcosa.
E tacere non basta a celare.
Tutta la durezza che metto al silenzio - o il rasoio della lingua - non reggono la tristezza di mia madre che mi scruta l'orizzonte del volto.
- Hai smesso di parlarmi - lei dice.
- Non ho mai cominciato - rispondo.
Allora torce la testa di lato e sorride. Come quando mi trovava nascosto sotto il tavolo con le mani straziate dai morsi per non fare sentire a nessuno l'angoscia. Bastava quello a cavarmi fuori, allora, dal pozzo di me.
Le rispondo ridendo, come dire: ho imparato a schivare i tuoi trucchi di rana pescatrice.
Poi mi scappa di cantare potessi dirti quello che nemmeno posso scrivere esiterei nel farlo. E ridiamo un po', ché io sono stonatissimo.
    

venerdì 9 ottobre 2009

La lingua del Santo ovvero Padova per principianti

Di Padova mi sorprende la bellezza. Inaspettata.
Ché ero sceso dal treno con l'umore degli appuntamenti al buio. Una sorta di machimelhafattofare che mi dondolava nella testa.
E invece no.
Sono bastati pochi passi insieme, con il trolley che ancora rantolva sull'asfalto, per smarrirmi.
Vie appena appena torte, che si aprono su piazze ampie. E portici. Vicoli di ghetto in cui perdere la ragione e palazzi in cui ritrovarla.
Mangiare solo,
seduto sotto il Leone di San Marco e rintanato nel grigio del vestito, è stato come corteggiare con lo sguardo la città. Lo stesso sguardo che neanche le donne belle che scivolavano leggere sui tacchi - saran queste le famigerate galline padovane? mi son chiesto - riuscivano a rubare per sé.
E poi tra le ossa del Santo, che era amico della nonna - e mia nonna vecchia abbastanza per averlo conosciuto - trovare le parole che mai mi sarei aspettato.
La strada da seguire è smettere di seguire una strada. 
        

venerdì 2 ottobre 2009

La conquista delle stelle

Il bello dello spazio è che non ci si può arrivare, non tanto facilmente almeno.
Come molto del bello di Cosmonauta sta in quel non essere riuscito ad andare a vederlo per almeno un paio di settimane consecutive. Missione rinviata per cause di forza maggiore. E intanto andavano in orbita i commenti della Signora Pi - identica alla segretaria dell'inferno di Beetlejuice che butta fuori il fumo da un taglio nella gola, per intenderci.
Andate a vederlo, diceva roca, che è bellissimo.
Ora, bellissimo mi pare troppo, ma io, di Luciana, avessi avuto sedic'anni, mi ci sarei invaghito.
Mi piacciono da morire i tipi border-line.

 

 



 

martedì 29 settembre 2009

MRI

L'introspezione è una forma di indagine su se stessi troppo simile alla rettoscopia. Invasiva. Dolorosa. Imprecisa. E con liste d'attesa lunghissime.
Forse dovrei dedicarmi all'invenzione della risonanza magnetica a perfusione per anime zoppe.
      

giovedì 24 settembre 2009

Convergenze involutive

Ginocchia: e fumiamo?    
Fukuda: sì, direi che ci vuole, ora, una paglia.
Ginocchia: [si stende su un quadrato di aghi di pino, accende e sospira una nuvola grigia che rimane sospesa, immobile, per un istante prima che il vento la prenda in una specie di danza] ...   
Fukuda: è che quando il gioco si fa duro...
Ginocchia: i duri? Cazzo fanno già?
Fukuda: dai! Quando il gioco si fa duro...
Ginocchia: i duri cominciano a fumare?    
Fukuda: già,
solo la nicotina e la birra ti possono aiutare.          

martedì 22 settembre 2009

Cinque scene da un matrimonio

La sposa ha rughe sottili ai lati degli occhi e l'aria nervosa. Il trucco non basta a nascondere le ore di sonno perdute, che sembrano tornarle sul viso nei lampi di sole sul velo. È bella mentre cammina lenta lungo il corridoio che porta all'uscita, nonostante le gambe del consorte non diano la stabilità che sperava al suo passo.

Una bambina con un vestito a fiori lascia cadere un flut dalla terrazza a picco sul mare. Ride sguaiata all'impatto che manda il vetro in frantumi, e che nessuno sente. Poi coglie il mio sguardo e si gela. Immobile, come una bestia selvatica sotto la luce improvvisa dei fari.
Quando si accorge che rido lancia un urlo selvaggio e comincia una danza che sembra una festa.
Tra complici ci si riconosce così.

- Ho fatto una scorpacciata di ostriche alla sfilata di Gucci, all'Excelsior - dice a voce alta una signora dal tailleur nero, mentre rifiuta con aria piccata l'offerta del cameriere.
Io non so trattenermi. Mi giro, la guardo, e col migliore sorriso di casa le dico:
- Non vedeva l'ora di dirlo, nevvero, signora?
Il freddo arriva che sembra inverno. Che quasi mi pento.
Al tavolo sono tutti immobili, forchetta alla bocca o a mezz'aria.
Poi qualcuno riscalda l'ambiente:
- È che alla sfilata di Cavalli fan solo panini.
E si riprende ad affrontare i molluschi. 

Lui fuma il sigaro e ha l'aria cupa. Guardinga. Si muove nervoso per tutto il castello, come un capitano che passa in rassegna ogni potenziale pericolo.
Quando lei lo raggiunge capisco perchè. È di una bellezza che abbaglia, che attira gli sguardi su sé a ogni movimento dei capelli nerissimi. A ogni respiro che fa danzare il seno.
Donne così belle andrebbero accompagnate con sicurezza. Anche solo inventata.

E poi c'è quello che cerca l'aria del terrazzo con fame. Infischiandosene della pioggia, si affanna a fumare e a ridere del tempo cangiante. Sembra allegro della lontananza che mette alla gente. La cravatta ciclamino sull'abito nero è come un richiamo per api ubriache.
Lo osservo tornare al suo tavolo, il passo dinoccolato.
Seduto sembra altrove, come fosse ancora fuori.  
             

giovedì 17 settembre 2009

Totoro

Sinceramente, a me Totoro manda completamente fuori.
Credo sia colpa di quella specie di rutti inarrivabili. Di come danza attorno all'orto per far crescere le piante - dico, mi fosse riuscito
mai coi pomodori! - e della malsana tendenza a infilarsi sotto gli scrosci dei pini.
O forse solo perché a veder correre Satsuki mi vien su una specie di groppo in gola e la voglia levarmi le scarpe e andarle dietro.
 

mercoledì 16 settembre 2009

Come estraneo a me stesso

Il fiato finisce insieme all'ultimo pezzo da centocinquanta battiti per minuto. L'ipod mi propone di fermarmi infilandomi Navi stanche di burrasca (Numero 6) nelle orecchie e io cedo volentieri, mollando la corsa per il passo.
Piove, ma il cappuccio della felpa tiene l'acqua bassa ai pensieri.
All'asciutto di quattro platani, le ultime due zanzare dell'estate si affollano su di me. La mia curiosità naturale le lascia fare: un corpo nero - a piccole macchie bianche - si posa appena sopra il ginocchio, lievissimo, l'apparto boccale infilza la carne senza lasciare sensazione di nulla. Un movimento infinitesimo del capo, mentre le zampe posteriori stanno tese all'aria. Come godesse.
E vola via, lasciandomi sedotta e abbandonata.
Il prurito arriva poco dopo, insieme alla sorella sull'altra gamba.
Con un colpo secco della mano la schiaccio prima che punga. [Curioso sì, proprio coglione magari anche no! Anche se è un vizio che non so togliermi quello di ammirare il meccanismo del pungere.]
Riprendo a correre piano. Come a voler imbrogliare la pioggia che ha cominciato a scendere abbondante.
Il pensieri seguono il filo di una ragnatela.
Ciò che mi distingue dalle bestie è tutto ciò che di me non vorrei. 
        

martedì 15 settembre 2009

Trentatre secondi di zapping

Coliandro è uno di noi.
Dice minchia che io manco lo guardo. Ascolto distratto e mi sembra di essere a casa.
Minchia, appunto.
Che i miei modelli stanno drammaticamente precipitando verso il basso.
           

venerdì 11 settembre 2009

Sparigliando

Come quando da bambino lasciavo che il vinavil mi incollasse le dita alle cose.
Una patina di profumo biancastro scavava le narici fino ai pensieri, invadendoli dal basicranio. Imbrogliandone il filo teso ad andare, lasciandomi inciampare in ogni nonnulla. Ridendo. Senza parole.
Poi levarsi coi denti quella pellicola lattiginosa era come il piacere di toccare la vita che si muoveva da sola dietro la fronte. Pensieri da niente, balenati in un pomeriggio di gioia.
Adesso m'invade improvvisa la stessa sconsiderata incoscienza d'allora. E come allora scelgo di non avere difese.
Solo, la saggezza di oggi sa che non ci sono più pensieri da levarsi coi denti e gettare tra il bello delle cose da fare. Ma solo roba che resta impiastriccita alle dita.
La belleza di oggi è tenere.    
            

giovedì 10 settembre 2009

Rassegna stampa

Otto pagine. Le prime otto.
Neanche quando è morto Gesùccristo, la Gazzetta della Galilea gli ha dedicato otto pagine. Le prime otto.
Michael Nicholas Salvatore Bongiorno invece sì.
C'è qualcosa che mi sfugge di questo mondo.
    

mercoledì 9 settembre 2009

Incidentale

Ginocchia: [rispondendo a un malinconico sms] sai cosa ci vorrebbe come terapia? Una di quelle belle pizze, la domenica sera, mangiate nel cartone ai giardini postatomici vicino casa. Come una volta.  
CLR: eh, lo so. Anche a me manca del sano tempo con te, a riflettere su stronzate che poi invece diventano opinioni d'avanguardia.  
Ginocchia: staminchia. 
            

martedì 8 settembre 2009

Scusate il ritardo

Ho vinto un premio.
Che io non ho mai vinto niente, esclusa quella volta che avevo invitato quella ragazza coi capelli rossi a vedere gli MTV Music Awards da me e Britney Spears aveva vinto il Best Female Artist. E allora, per festeggiare, anche quella ragazza coi capelli rossi mi aveva dato un premio, a me.
Che non era proprio un MTV Music Awards.
Che poi, io, forse è per questo che ho sviluppato un debole per Britney.
Che quando si rasa a zero, si ubriaca come un camallo e va in giro senza mutande è un po' la mia donna ideale. Anzi, di più. Io vorrei essere proprio come lei. Come Britney.
Ma questa è un'altra storia.
Qui, oggi, si parla del fatto che lei mi ha dato un premio che funziona così:
raccontate ai vostri lettori 10 cose che si sappiano o meno di voi ma che sono vere. Indicate dieci persone che hanno diritto al premio e siate sicuri di far loro sapere che sono stati contrassegnati (un breve commento sul loro blog andrà bene). Non dimenticate di collegarvi di nuovo al blogger che vi ha premiato.
Che è una gran rottura di coglioni, invero (no, Eppi, son tanto orgoglioso di averlo vinto, ma devo far la parte del sostenuto. Lo sai, vero?)!
Ordunque. Sbrogliamoci l'impiccio.

1. Ho paura di Pinocchio. Da sempre. Da quando, da piccino, mi dicevano:
- Ora ti racconto una storia!
- Eddaie.
- Pinocchio.
- Maccristosanto, Sorellauno! - rispondevo - Mi vuoi far venire l'ansia un'altra volta?
Ché Pinocchio è una storia orribile di gente perfida che vuol trasformare un povero burattino in un balilla. Ché uno non può manco essere pupazzo in pace, che tutti son lì che ti vogliono cambiare. E poi il film aveva una musichetta che mi frantumava i dischi intervertebrali.

2. Ho un debole segreto per Britney. Ma questo non lo sa praticamente nessuno.

3. Sono ancora orgogliosamente detentore del record di fidanzatine rosse consecutive in zona Pozzo. E credo che questo record rimarrà imbattuto a lungo perché nessuno è mai stato bravo come me con le signorine dai capelli rossi. Che ancora adesso, che son passati anni, dalla panettiera mi dicono: ah, ma tu sei quello...

4. Sono un cialtrone. 

5. Credo che dieci cose siano troppe. Tutta questa autoreferenzialità mi nuoce.

6. Il sei è un numero che odio dal profondo. Non potrei mai abitare al civico sei. Avere un numero di telefono con dei sei (no, quello è un sedici, smettila!). Rompo subito un pezzo ai servizi da sei, che diventano fantastici servizi da cinque. Ma questa cosa non ha alcun motivo logico e sensato. 

7. Ci sono giorni che proprio faccio fatica. A vivere, intendo. Ma poi succede quellarobalì, e allora mi pare di tornare a respirare.

8. Ho battezzato tutte le piante di casa: l'anthurium si chiama Romina, la kalanchoe Agata, il cactus a palla Fabbrizio e l'ignota pianta grassa Bassotuba. Poi, quando torneranno i gerani che sono ancora in vacanza a casa vecchia, saranno cazzi.

9. Ci sono cose che ancora, davvero, non mi spiego. Allora canto "Com'è triste Venezia" e la gente ride. Ma la gente non capisce un cazzo. Che non c'è mica nulla da ridere.
"Com'è triste Venezia" solo in pochi la si può capire come affermazione.   

10. Non incateno mai nessuno. E non per principio. Piuttosto per pigrizia. Che ora, dopo queste dieci cose, dovrei far la fatica di trovare dieci persone e, davvero, io proprio non ce la posso fare.
                

giovedì 3 settembre 2009

La misura dell'anima

Ginocchia: e piantala di giocare col metro che se ti vede Arturo se ne va a male.   
Fukuda: [fingendo di misurarsi il pene] ah sì? E perché?      
Ginocchia:
non so! È infoiato col metro.
Mrs Fukuda: ecco, e non esagerare neanche coi centimetri. 
Ginocchia: oooh, sento come una vena critica.  
Mrs Fukuda: è che Fukuda ha l'animo grande!     
Fukuda: Io non lo voglio l'animo grande. Io voglio il pisello grande. Ché l'animo grande è da perdente!
Ginocchia: schiappa!               

mercoledì 2 settembre 2009

Sorci

Le scarpe, le lego strette, a fasciare il piede. Come se non volessi sentirle.
Potessi, correrei scalzo, ma siamo gente civile qui, piena di asfalto e benzopirene ovunque.
Sono grigie come topi e vecchie di quando muoversi era un'attitudine naturale, le mie scarpe per correre, e io dello stesso colore, solo coperto di una maglia nera e stinta, come l'umore.
Allineare passi è l'unica cosa che posso. Allineare passi uno dietro l'altro e sudare. Lasciare che il corpo si sfasci nel dolore sordo che sento ai polmoni, appena cento passi più in là.
Correre è rubare l'energia che lascio alla disperazione, è pretenderla per le gambe, per trascinarmi avanti. Per andare dove voglio.
Correre è sbrogliare dei nodi che si sono aggrovigliati dentro, tra tutte le cose che tengo irrisolte.
Correre, ora, è come quella volta che ho nuotato quattro ore e poi uscito dall'acqua sono morto. Ma lì dentro, nel blu, sembravo quasi riuscire a capire qualcosa di tutto questo distruggere. Capirmi, magari, ma solo in negazione. Servo da sempre di ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

[É che ho umori violenti, che mi trattano proprio come la loro peggiore puttana.]
           

venerdì 28 agosto 2009

Happy Birthday, Mr. President

La Prof mi guarda seria, allegra dopo il tintinnare di calici in suo onore:
- Ora dovresti bagnare qualcosa, tanto per battezzare casa nuova.
- Ma sei sicura?
- Certo! Un'inaugurazione è quello che ci vuole...
Il mio sguardo sbatte come un insetto sul cristallo della sua sicurezza. In mano, ciò che avanza di una bottiglia di Bellavista Satèn. Non più di tre dita.
I pochi ospiti, nafruagati nella città deserta troppo presto per evitare l'ultima afa, discutono distrattamente della putrella a vista che abbiamo lasciato in salotto.
- Dai! - insiste la Prof.
Piego la testa lievemente di lato, come in dubbioso assenso. Poi, una scossa leggera della mano accontenta un desiderio di festa.
Dalla bottiglia, però, non esce la stilla che m'aspettavo. Si alza invece un ribollire di schiuma. Il gesto istintivo di tappare col dito fa partire uno spruzzo potente che finisce lesto sul muro, e poi sulla cucina, e poi direttamente sulla Prof! 
Ride. Lei.
Dice solo:
- Peccato, però, che avevo fatto oggi la piega.
Intorno, dieci occhi mi fissano muti.
Nessuno osa dire nulla. Come congelati. Disorientati.
Ci fossi stato io, al loro posto, avrei applaudito!

[Tre riflessioni. Uno. Ogni minimo gesto al di fuori dell'ordinario genera conseguenze che io tenderei a definire eccessive. Due. Tendo per natura a compiere gesti fuori dall'ordinario. Tre. Ho vecchi, cari amici noiosi che mi considerano pazzo.]
     

lunedì 24 agosto 2009

Nomina sunt consequentia rerum

No, ecco, ieri.
No, ecco, ieri stavo mangiando i fichi e.   
No, ecco, ieri stavo mangiando i fichi e ho proprio pensato così.
Nomina sunt consequentia rerum.
     

mercoledì 19 agosto 2009

Controviale

L'allegria di agosto è il silenzio delle strade.
Un'infinita linea di bagolari spacca in due il viale e resta immobile a guardarmi fumare, come se trattenesse il fiato. Come se non volessero essere scoperti. Ma io lo so che quando mi volto di spalle loro scrollano le radici di terra e muovono altrove.
Un due tre, stella! - grido faccia al muro e mi giro di scatto.
Non sono mai abbastanza veloce, però, per coglierli in flagranza di passo.
Come questa amarezza che sento, che si scioglierà in un lungo silenzio, prima che possa darle un nome.
     

giovedì 13 agosto 2009

Gli incubi dei pesci rossi

Mi sveglio che il cuscino è già morto.
L'ho strangolato nel sonno inseguendo coi gesti un qualche sogno inquieto.
Colpa del caldo, dicono i più, che fa fare incubi assurdi.
Ma è strano svegliarsi nel cuore della notte - il mondo muto di agosto - con addosso i graffi di un tormento che ho solo sognato. Le ombre giocano a disegnare mostri che si muovono sulla parete candida. E io non ho requie.
Mi alzo e scivolo verso l'aria del balcone. Ho desideri da confessare alle stelle cadenti.
Contro undici aerei prima di arrendermi.
Dabbasso, sull'asfalto che accoglie la mia sigaretta in scintille, cerco la parola che mi definisca.
Sgomento. Oggi.

[E qui ringrazio chi mi ha dato da leggere "Metello" di Vasco Pratolini, perché la parola Sgomento, davvero, non la leggevo da anni. E mi mancava, dio se mancava! E anche un po' quel socialismo lì.]              

lunedì 27 luglio 2009

Sull'andare

In casa si sente solo l'eco dei nostri passi.
I muri nudi non offrono più resistenza all'aria che si infila in folate calde dal ballatoio all'abbaino. Spalancata così, Casetta, sembra quasi più grande, come se aver levato i pochi mobili, i libri e le pentole che fumavano in cucina avesse allontanato le pareti tra loro.
Disorientato, la misuro in passi lunghi un metro.
Arturo corre da una stanza all'altra. Non gli par vero tutto quello spazio libero per giocare. Mi guarda, alza la coda e la gonfia: mi sfida a insegurlo.
Cominciamo una danza che forse è un rituale di addio.
Scalzo, inseguo il gatto per tutta casa ridendo, fin sul ballatoio, dove mi fermo solo quando mi imbatto nei nuovi vicini. Mentre noi ci prepariamo ad andare, loro vengono a vivere nella casa accanto.
Abib mi aiuta a scendere i miei pacchi, io a salire i suoi. Condividiamo un ascensore, un balcone e una fatica.
- Abibi in arabo vuol dire Amore - mi ha detto presentadosi.
- Daniele, invece, solamente Dio è il mio giudice - gli ho risposto, anche se avrei voluto tanto dirgli peace and love, fratello!, affinché sapesse subito che sono un cretino.
Sua moglie ha una pancia che la precede orgogliosa di mezzo metro. Pare essersi dimenticata di partorire e portarsi nel ventre un bambino di almeno sei mesi. Ogni tanto entrano da noi, scelgono ciò che gli serve tra quello che lasceremo e ci raccontano delle loro famiglie in Senegal. È uno scambio equo: una storia ogni tre pacchi di pasta.
A me quasi dispiace partire proprio ora che il cortile si sta rianimando. E non solo il cortile.
Sul tetto, un amico di Abib s'è già attaccato abusivamente alla parabola di quelli del terzo e io non riesco a non pensare che era la volta buona che mi facevo Sky a scrocco.
La Prof, intanto, tira a lucido il pavimento. Lava e piange, credendosi nascosta dal riverbero del sole sulle piastrelle lustre.
Anche se l'ho fatta star male, dice che lei è sempre stata felice quassù, insieme a me. Anche se quando me ne uscivo sul tetto moriva di paura.
Casa nuova non ha vie di fuga. Solo un letto enorme che fa venire voglia di stare.

Ma non c'é più tempo.
Il sole è già sceso dietro i tetti di fronte e sta arrivando la sera. E con la sera arriva anche Rodica carica di una montagna di coperte:
- Ti aiuto io a preparare un giaciglio - dice alla Prof che lentamente si asciuga gli occhi - quando sono venuta di Romania le prime sere anche io ho dormito per terra.
- Noi l'ultima, invece - risponde ritrovando una specie di allegria. 
Stasera staremo ancora così, adagiati sul pavimento vuoto a guardare un'unghia di luna e le quattro cupole a cipolla della sinagoga.
La nostra ultima mille e una notte.
Qui.
                        

giovedì 23 luglio 2009

De rerum transloci

Tutto si può dividere in parti più piccole, ovvero la ricerca di nuove particelle subatomiche comincia dal mio divanoletto.
Ah, il bosone di Higgs lo abbiamo intravisto alle dodici e ventitré, stava in una piazzola d'emergenza.
  

domenica 19 luglio 2009

La vita al metrocubo

Tre anni di vita stanno in trentasette scatoloni, quattordici buste e tre valige. Vestiti esclusi.
In finale, i libri hanno battuto le scarpe per sette a quattro.
Si sono piazzate bene anche le pentole senza coperchi, al quarto posto.
E tutto il resto è noia. Ma per oggi ho finito le scatole. 
   

mercoledì 15 luglio 2009

Golden Shower

Ginocchia: dobbiamo smetterla con questo stile di vita dissoluto!  
Fukuda: ah sì? E perché?      
Ginocchia:
perché ogni volta che vado a far pipì sento odore di birra.
Fukuda: quale?
Ginocchia: come "quale"? 
Fukuda: quale birra?    
Ginocchia:
aaah, di Erdinger...
Fukuda: minchia, beato te. Sempre il solito fortunato.
Ginocchia: sì, come no? Fortunato di cosa?
Fukuda: che c'hai la spillatrice incorporata, ora basta che ti porti dietro la pila di bicchieri di plastica e sei a posto...  
   

sabato 11 luglio 2009

Rituali di Corteggiamento

Torino mi stupisce sempre.
Come un'amante elegante e austera a cui sfugge, tra le dita che coprono le labbra, la parola che ti schiude il sorriso.
Torino oggi si lasciava desiderare, invece.
A nulla valeva l'initerrotto corteggiarla lungo le sue strade rette. Oggi non mi lasciava perdere tra le sue cosce e a ogni svolta d'angolo ritrovavo solo me. Perché ci sono giorni che io non vorrei incontrarmi mai e sono i giorni in cui Torino mi apre le gambe e mi lascia libero di dimenticarmi, aggrappato alla sua schiena ossuta. Ma oggi no, oggi non mi voleva.
Offeso, scendevo dalle sue natiche e varcavo il fiume, infilandomi ortogonale tre le vertebre delle piazze piccole.
All'ultima carezza lasciata in punta di dita tra le costole, però, l'ho sentita ridere. Una risata di un semitono troppo alta, che non mi aspettavo più.
Ho alzato la testa, allora, e ho visto il ventre di Piazza Carlo Alberto farsi palcoscenico e tredici attori vestiti di nero danzare con sé stessi e uno scaletto. E poi correre e ridere e prendere la gente per mano e raccontare.
E finalmente mi son perso.

[Che poi c'era un'attrice con le scarpe rosse a puis bianchi sotto il vestito nero e un fiore, anch'esso rosso, appuntato a una spallina. Capelli castani corti e un muso da furbetta.
E due tette grandi e tonde, che sbirciavano dalla scolatura quadra.
Ho pensato, subito, che forse quello era metateatro, teatro nel teatro.
Poi ho solo pensato che era molto bella.]
        

venerdì 10 luglio 2009

Traffic Free Festival

Le parole se ne sono andate finalmente.
Mi hanno lasciato libero dal bisogno di dire, di vomitarle in conati secchi, come se dovessi svuotarmi di qualche scheggia mal digerita che mi fa a brandelli l'anima.
Ora, finalmente, sono di nuovo libero di tacere. Di imparare ad ascoltare.
Seduto nell'erba, lascio la musica infilarsi nei miei vuoti.
Accolgo.
E con lo sguardo prendo anche il sorriso di chi con me ha diviso questi pochi metri di freddo alla schiena e musica. Grazie.
   

lunedì 6 luglio 2009

Scritto in faccia

La seconda legge di Baumhauer e Komp dice che il senso di scoramento è direttamente proporzionale alla lunghezza della barba.
E io non mi rado da quattro settimane.
     

sabato 4 luglio 2009

Pacchetto (in)sicurezza

Di questa legge qua, sui negri, sarebbe stato contento il nonno. Che lui era uno che i negri ci piacevano, il nonno. Me lo raccontava sempre, quando lo andavamo a prendere a Villa Cristina per portarlo a fare una passeggiata, che quando era andato in Africa "l'era pieno di negri lì".
Loro ci sparavano col moschetto, ai negri, e per ogni tre negri impallinati nelle chiappe il capitano Calderone gli regalava un pacchetto di nazionali.
Fosse ancora qui, il nonno, starebbe pulendo il moschetto.
Ché anche se c'è la crisi e l'offerta s'è ribassata, un pacchetto di nazionali per cinque negri è sempre un buon affare.    

[Disclaimer: si scrive decreto sicurezza, ma si legge mica tanto diversamente da così.] 
   

giovedì 2 luglio 2009

Blackout

La mia dipendenza dalla corrente elettrica è qualcosa di imbarazzante. 

[Ma almeno, con la scusa dello scioglimento dei ghiacci, mi son fatto mezzo chilo di affogato all'amarena.]
   

mercoledì 1 luglio 2009

Strana l'estate

L'afa mi schiaccia sul pavimento a cercare il fresco, come fanno i gatti. Rotolo dalla pancia alla schiena, e viceversa, lasciando ombre di corpo umano sul cotto. Neanche nei libri trovo la pace, stasera.
L'aria manca. E la poca rimasta è troppo calda per respirare.
Fuori pare prepararsi tempesta.
Un alito di vento gonfia appena le tende a e anche me, che mi sollevo come foglia, infilo le ciabbe e mi cavo fuori dal forno.
Appena qualche passo da casa mi accoglie la voce incantata di un gruppo jazz.
La piazza, una volta, era una distesa di auto e di gente che cercava parcheggio. Ora è una spianata di marmo tra due ali in discesa di typha angustifolia. Tutti dicono brutta, forse per quella casina nel mezzo che non c'entra nulla, ma io non mi ci sono
mai trovato male. Probabilmente solo per averci passato, rinchiuso nei laboratori di fronte, i miei anni più belli. Quelli dove tutto sembrava possiblie.
Ora rimane uno spazio d'aria, la vista su uno spicchio di collina, qualche parallelepipedo di marmo dove sedere e quel vecchio edificio in mattoni rossi a chiudere il quadro.
E così mi accoccolo a terra anche stavolta.
Mi levo le scarpe e mi corico, la testa poggiata a due coscie toste che sembrano di marmo.
Il cielo promette la pioggia. Lo si capisce dai lampi ininterrotti che vanno a tempo di jazz. Ma si sta bene lì, a guaradare le nuvole.
Alle prime gocce, però, s'ha da fuggire. Ci aspetta a bocca spalancata un cortile denso di percussioni e danze africane.
Tutti a piedi nudi, anche lì.
Adoro questa città, ma, stasera, fortuna vuole che piova sul serio. 
       

giovedì 25 giugno 2009

Wiener Notizen

Ein Spaziergang durch die Straßen von Wien.

[Si avverte la gentile utenza di lingua tedesca che la soprastante frase è stata cordialmente offerta da Google Language Tools].    

domenica 21 giugno 2009

Quarantasette minuti nell'aldilà

L'inferno, nel mio immaginario, somiglia all'Ikea la prima domenica d'estate.
Una bolgia di gente che non ha più gusto di andare altrove e vaga incerta pensando: però, com'è strana Stoccolma.
File infinite di coppie aspettano ore per poter comprare due bicchieri e un sottovaso, una voce nell'altoparlante grida che la bambina Mariapina si è ingozzata di palle gialle nel pallodromo.
E io sto solo pensando che non vedo l'ora di uscire di lì, e non è colpa mia se tra meno di un mese devo traslocare e mi serve un cazzo di letto -ché se continuo così mi toccherà dormire su un pagliericcio fino a ottobre inoltrato- quando inciampo in un paio di gambe lunghissime su tacchi vertiginosi.
Lascia quell'idiota!, è la prima cosa che penso, ché s'è dovuto tatuare il nome su braccio per ricordarsi che si chiama Andonio.
Fortuna che poi si torna.
Fortuna che fuori c'è il sole e sotto casa mi aspetta il concerto d'inizio estate.
    

venerdì 12 giugno 2009

Scienze della comunicazione

Oggi vorrei saper suonare il piano.
Se sapessi suonare il piano, oggi, spalancherei le finestre e lascerei andare sui tasti questi pensieri fatti di scirocco e morsi a far sanguinare le labbra. Li lascerei scivolare per ore, giù dal balcone che dà sul cortile, come un rubinetto dimenticato aperto che trabocca dal quarto piano. Uno scroscio violento a spampanare i gerani della signora di sotto.
Che sentano tutti che sono per te. E non mi importa di ciò che diranno della mia oscenità. Non ho alcun pudore, mai avuto pudore.
[E so bene che dovrei vergognarmi anche di questo.]
Purtroppo, però, non so suonare nulla e mi si ingolferà il fiato di tutto questo sentire.
Ché quando ero bambino, Adelina non c'ha pensato che mi sarebbe mancato un modo per dire le cose e mi ha riempito i giochi solo di stoffe e bottoni. E Angelo già a sei anni mi portava in bottega -chè non c'è tempo per certi trastulli quando s'ha da campà- a insegnarmi il gusto metallico dei transistor.
Allora non mi resta che dirtelo provando ad accostare tre pezze di seta, un pugno di resistenze e un filo di stagno.
    

giovedì 11 giugno 2009

Seduto sull'erba

L'estate erano un cinquantina di ragazzini delle medie che recitavano ai margini del bosco.
Un gruppo di insegnanti s'indaffarava a coordinarne la
contagiosa allegria, mentre un pubblico di genitori e curiosi si disponeva a falce di luna, seguendo gli umori del terreno sconnesso.
Si aspettava il buio ai margini, fumando e giocando a scacchi. Si attendeva la nota che avrebbe aperto la danza di quelle incerte figure nere che si lanciavano in scorribande nei boschi.
Quando brillarono le prime lucciole ci fu un "Oooh" di meraviglia e poi di nuovo il silenzio delle voci basse, in attesa. Qualcuno, a bocca aperta, seguiva quel lieve baluginio nel fitto dei castagni.
Con stupore, mi sorpresi a pensare -il cavallo fermo a mezz'aria- che somiglia a un miracolo meravigliarsi ancora di tutto.
        

venerdì 5 giugno 2009

Sull'antropometria

Ginocchia: io non ho calzini colorati. Me li compri? Ora sento di non poterne fare più a meno...  
Signorina Esse: certo, che numero? E che siano solo Gallo!! Non sporche e luride, schifose imitazioni!  
Ginocchia: come sei bon ton estremo!
Signorina Esse: sì, e con un certo vanto! Numero?       
Ginocchia:
non lo so. Dovresti saperlo che non lo so. Non so manco quanto ce l'ho lungo, figurati se so il numero di piede...  
Signorina Esse: [ridendo] sempre il solito approssimativo!          

martedì 2 giugno 2009

Appunti per la prossima vita VII

Forse, la vigilia delle feste infrasettimanali, è meglio ricordarsi di pigiare il tasto OFF sulla sveglia.
Su tutte e tre.
Ché stamattina mi sono fatto il rosario per intero: 7:30, 8:00, 8:30. Porcaputtanaladra!
   

lunedì 1 giugno 2009

La finestra sul cortile

Le tende si gonfiano al vento come le vele di un brigantino. La stoffa, sferzata dalle folate, sembra stridere di dolore costringendomi a lasciare al gatto il timone di casa. Mi spingo fino al castello di prua che dà sul cortile.
Si prepara tempesta, lo vedo dal tremare delle foglie del fico che mi urlano di rientrare.
Le luci dei palazzi di fronte mi guidano lo sguardo come fossero fari.
Sono sei quelle accese, fino alla tua. La settima.
Tu -che non so chi sei- ti stai spogliando ignara del mio sguardo di vedetta addosso. Sembri bella, da questo lontano, leggera nel muoversi dei capelli come onde.
Mi noti solo quando devi correre fuori, quasi nuda, a fermare le gelosie che sbattono sotto i colpi furiosi del vento. Lavori senza distogliere gli occhi dalla brace della mia sigaretta che si illumina al ritmo del respiro. Senza pudore.
E senza vergogna io resto a guardare.
Ché di donne spogliarsi ne ho viste abbstanza e ho perso quella curiosità bambina che mi avrebbe fatto nascondere per spiare, e non restare fermo al mio posto ad ammainare le vele che il vento altrimenti si sarebbe mangiato.
Ti guardo come ho guardato, la mattina, l'alba sul fiume. 
Poi rientri in coperta e finisci
con calma. Un cenno della mano in saluto e vedo solo la tua ombra sparire.
Rimane acceso il settimo faro.

[Sono belle le case di ringhiera.]   
        

mercoledì 27 maggio 2009

Apologetica del ciclismo

La salita al Centocroci inizia subito dura.
Le gambe cominciano a stridere dopo pochi metri pedalati a ritmo, i polmoni divorano l'aria affamati. Nel petto, un ingranaggio impazzito rimbomba fino alle orecchie.
Non sento nient'altro. Non la voce di chi ha ancora la forza di parlarmi, non il vento tra gli alberi, non il rombo delle poche auto che ci assalgono alle spalle.
Quando mi fermo è perchè credo di star per morire. Solo che mi spiacerebbe tirare le cuoia così, con i piedi incastrati ai pedali in una ridicola caduta laterale sulle ruote. Meglio accasciarsi nell'erba, come si conviene.

Quando intravedo la meta, giusto una manciata di curve più in là, mi sono già dovuto fermare altre due volte.
Le costole digrignate sul respiro affannato.
Le gambe rifiutano il passo e a poco serve incaponirsi con tutto il peso del corpo.
Non rimane nulla di me. Non il cuore, non le forze, non la volontà. Sono completamente svuotato di energie.
Ho dato tutto. E ora c'è solo l'abisso degli occhi che si chiudono per la stanchezza.
é in quel momento che sento la mano di Matteo appoggiarsi sulla schiena e spingermi avanti, come a levarmi dieci chili di peso. La gamba, allora, pare farsi leggera e ricomincia girare.
Mi accompagna così per gli ultimi, interminabili chilometri, fin quasi alla cima.
Quando mi lascia sento di nuovo la gravità affossarmi a terra.
Infilo le ultime quattro pedalate stanche e stramazzo al suolo, appena accanto alla scritta Centocroci.
Quasi centouno.

La discesa vola via in quindici minuti scarsi di assoluto riposo. Ma com'è, mi chiedo, che due ore e passa di ascesa si risolvono poi in pochi attimi di piacevole volo?
Un pensiero si perde nel vento.
Tutta la mia vite è così: trascinare un peso sullo stomaco che non so spiegare a nessuno, fino a quando mi tengon le forze, fino allo stremo.
Poi sta a chi cammina con me decidere se lasciarmi indietro o dividere il peso e arrivare insieme alla meta.
Il gesto nobile del ciclista, nella vita, somiglia a un miracolo.
   

martedì 26 maggio 2009

Parole al vento

Avevo scritto un post.
Era come una rivelazione.
Splinder se l'è mangiato, ingordo cane rognoso!
Comincio a sospettare che il mondo non sia ancora pronto.

Ora vado a Fatima.
Mi pare siano andati in riserva coi segreti, da quelle parti.
   

lunedì 25 maggio 2009

Turno di guardia

L'afa mi ruba il sonno dalla bocca spalancata in una sorta di sbadiglio. Non basta la scusa della stanchezza per chiudere gli occhi, stasera.
Mi aspetta, al varco della porta, una notte senza pace, senza alcuna concessione. La riconosco dall'odore ferroso dell'aria, dal vuoto di stelle.
Carico l'archibugio di improbabili giustificazioni. Una salva di avvertimento, come a prendere tempo.
E poi si va.
Amo le notti così.
In cui ho solo da litigare con me fino all'alba.
  

giovedì 21 maggio 2009

Effetti collaterali da primavera inoltrata

Dr.ssa Emme: ma quello che hai al collo è un dildo?      
Ginocchia:
[ridendo] eh? 
Dr.ssa Emme: [arrossendo] ehm, un dodo, intendevo... 
Ginocchia: sì, questo è un dodo. Il dildo, invece, mi sa che è un lapsus.    

lunedì 18 maggio 2009

Un sabato lungo una vacanza

Il sabato inizia in anticipo. Me lo ritrovo addosso già alle sette del mattino, con tutta la sua aria da villaggio: il sole che sbatte sugli scuri, la lentezza nelle faccende, i movimenti pigri delle ossa. Anche gli uccelli volano più piano, il sabato mattina.
Io no.
La massaia che c'è in me ha scritto la lista della spesa alla lavagna, non c'è calamita a forma di mucca che possa cadere, stavolta: sta per finire il vino, il camapri è morto già da un paio di giorni! Non si può vivere in questa maniera incivile! E, già che andiamo al mercato, ci scappano anche due olive e un paio di mele, carciofi e piselli (che a cena viene la talpa, ma questa è tutta un'altra storia che merita uno spazio tutto suo).
Arrivo al Circolo dei Lettori che la massaia che c'è in me giace stremata e gaudente nel frigorifero. Fortunatamente, perchè non sarebbe stato bello presentarsi con le sporte colme e l'aria di volere sfamare il mondo.
Sono in ritardo quanto basta per potermi accucciare non visto sul fondo di una poltroncina rossa, nell'angolo accanto alla porta, ad ascoltare.
Ascoltare mi riesce bene, sempre molto meglio che parlare.
Il LitCamp offre voci ferme, che raccontano storie avvincenti, e sguardi obliqui e attenti sulle parole. Offre parole che regalano persone intere e persone che si raccontano guardando altrove. Offre spunti di pensiero e pensieri interi da conservare per la sera. Risate, poi, come aperitivo. Offre occhi attenti che ascoltano e nuche da spiare mentre si muovono in segni di assenso o diniego.
Il LitCamp offre persone, che prima erano un nome e delle parole, e ora sono sorrisi, capelli, movimenti cauti, sguardi. Il gusto di dire. Sono voglia di scoprire, di vedere, di fare. Curiosità, idee.
E una cosa meravigliosa su tutte m'è rimasta addosso e non la so levare.
L'idea del silenzio.
Che poi ho splendidamente accantonato un attimo dopo correndo al gay pride. Non c'è festa più bella, dopo quella degli alpini.

[Molti hanno raccontato degli interventi e speso parole entusiaste di ringraziamento per chi tanto si è dato nell'organizzare. Io il mio personalissimo grazie lo voglio dire a chi era di casa e si è occupato di accoglierci tutti, facendomi sentire a casa per davvero. Grazie E.l.e.n.a. Grazie Viridian.]

domenica 17 maggio 2009

Davanti a me

C'è meno confusione che dentro.  

[Non si sa mai quanto la gente possa essere disordinata.]         

venerdì 15 maggio 2009

Appunti per una vita serena

Quando levi il coniglio dal forno, ricordati di usare le presine.
Ricordati di usare le presine, che brucia!
[Soprattutto la testa altrove, brucia.]
Ecco, anche se ci sono solo quelle con le ciliege ricamate a punto croce, la tua maschitudine non ne subirà difetto.
   

giovedì 14 maggio 2009

Manuale di insicurezza per decreti pavidi

Io non so parlare del mondo.
Non riesco a parlarne senza che una rabbia funerea mi attraversi intero, gonfiando le vene delle mani e quelle sulle tempie. Senza che l'ira si impossessi di me e una nausea feroce mi prenda il ventre. Nausea del mondo e nausa dell'ira. E la strana paura di me, di quello che dico, di ciò che penso potrei.
È che vorrei sapere partecipare al mondo come partecipano altri più sani. Donandosi. E dando qualcosa che non sia rabbia, che non sia nausea. Che forse, ora, non servono a nulla.

Oggi la radiosveglia ha cantato il giornale radio delle sette e trenta.
Mi sono alzato barcollando e ho inciampato tre volte nel gatto.
Colpa del decreto sicurezza che mi rende insicuro, incerto nei passi, e temo anche che Arturo sia extracomunitario.
È nera, infatti, l'infame bestiaccia.
È che mi fa paura tutto quello che dovrebbe rassicurarmi.
Mi fanno paura le ronde. Chi organizzerà le ronde per controllare le ronde, mi chiedo. Quando mi malmeneranno perchè mi piace ascoltare le storie di quel tizio che cerca di vendermi elefanti di fintoebano, chi mi difenderà? Mi fa paura la paura usata come strumento per inchiodarci in casa, per impedirici di imparare il mondo con le mani. Per impedirci di conoscere altro che non sia la paura stessa. 
Mi fa paura anche solo l'idea dei medici spia. Mi fa paura la tubercolosi che cova già l'epidemia, pronta a esplodere quando il timore di una denuncia terrà la gente lontana dagli ospedali.
Mi fa vergogna respingerere navi cariche di persone. Mi fa vergognare che si giochi a rimpiattino con un buco di culo come Malta, mentre le persone muoiono in balia delle onde. La responsabilità è nostra. E di nessun altro.
E intanto, mentre per la paura di pochi vili si uccide la speranza di molti uomini, a rifare l'asfalto del corso è un povero negro, a tirare su i muri di casa un rumeno di merda, chi guarda tua madre che lentamente muore di inedia è un filippino del cazzo, moldava la babysitter, il pane che mangi è arabo, la menta del mohito con cui ti trastulli la sera la vendono a fasci i marocchini a Porta Palazzo. E non solo. Cucinato da un musogiallo il cibo che tanto ti piace, il nuovo medico della mutua un indiano, albanese l'elettrauto, un terrone il pizzaiolo, somalo chi raccoglie a Pachino.  
Tra poco non potremmo più fare nulla senza gli altri che vengono da lontano e tu continui a respingere.
A difendere un confine che non esiste.
Il confine lo ha già sbaragliato il bisogno. E se tu sei umano, il tuo dovere è aprire, accogliere, condividere. Usarti per trovare soluzioni possibili a situazioni impreviste e non limitarti a respingere il problema dall'altra parte del mare.
Non si possono chiudere le porte alla vita.

Io non sono un migrante. Ma sono senza una terra che possa dire mia. 
Mio nonno andò in Belgio con una moglie e tre figli. E tornò in patria con una moglie diversa e qualche figlio di più. Ha scavato buchi profondi nella terra e ha avuto la fortuna di uscirne intero. Il Belgio in cui non era nato gli aveva però dato lavoro e amici, una lingua e la scuola.
Ne ha fatto un cittadino, per sempre.
Mio padre parlava meglio il francese dell'italiano. In alternativa aveva solo un dialetto arcaico che nessuno ricordava più. Mia madre rise quando lo senti dire bonaca invece che giacca, ma si fece migrante anche lei. Da Enna a Torino è quasi più lontano che da Triopoli a Taormina.
Io sono di seconda generazione, come i ragazzini cinesi che stanno sotto gli zaini davanti alle scuole.
Non ho patria, come loro. E di terrone me ne son presi tanti come un insulto, e tanti ridendoci insieme. Ché son proprio terrone, non c'è nulla da fare!
La gente di qui mi sente subito straniero per l'accento stonato e usare la minchia come un intercalare, invece del piciu. Sono straniero per i dolci che mangio e che so cucinare, per il mischiare l'uvetta alle sarde, perchè aspetto i ragali dei morti.
E allora ditemi, che differenza c'è tra me e loro? Che io, davvero, non la so vedere.
     

mercoledì 13 maggio 2009

Fuori le mura

Fuori casa.
La sera mi chiama a stare fuori. È una voce che sento nell'aria, che gioca a nascondersi tra i pollini bianchi che infestano il cielo.
Le pareti, dentro, sembrano essersi fatte più anguste. Dopo averci masticato per tutto l'inverno ora ci sputano fuori, sul ballatoio. Tutti quanti. I più piccoli giocano giochi che non capisco, si vergognano e fuggono. Fanno strane danze, invece, le bambine di Costanza: tre passi avanti e un inchino, una giravolta e poi ridono come matte. Donne di generazioni e continenti diversi intrecciano fili del bucato e pettegolezzi. Gli uomini fumano e non danno confidenza, se non quando c'è da prestarsi a vicenda la chiave a pappagallo per aggiustare il lavandino. Ce n'è una sola che gira per tutto il palazzo e non si sa più di chi sia.
L'aria è densa del profumo delle cucine. Il gatto samania curioso.
Allora si aspetta che il sole si infili in via Pomba e vada a dormire appena sopra il cinema Nazionale -pare abiti proprio lì a giudicare da come ci si tuffa ogni sera- per uscire poi in maniche di camicia, lungo vie dritte in cui è facile camminare senza mai perdersi.
Si cerca l'aria delle piazze, il movimento guizzante della gente, da seguire con la coda dell'occhio.
Ci si fa pesce.
E come pesce si nuota controcorrente nel flusso delle parole. Distrattamente ci si lascia andare a fondo, come a inseguire un pensiero bianco di seppia, che balugina di lontano. Come a insegure la propria natura selace.

Voi mi vedete. E io non sono qui.
Sto immerso nel fondo.
   

lunedì 11 maggio 2009

Sul corso inarrestabile del tempo...

Ginocchia: vieni alla festa di Pi? 
Fukuda: sì che ci vengo. Ma chiamarla festa mi pare un po' esagerato.     
Ginocchia:
no, perché, cosa sarebbe allora?
Fukuda: vabbè, festa era quella roba che c'arrivavi per l'una già alticcio, alle due eri sbronzo e alle tre limonavi duro con una sconosciuta...
Ginocchia: già...
Fukuda: te 'o ricordi, signò?    
Ginocchia:
come no!
Fukuda: non come adesso che per festa s'intende: [in falsetto] io faccio la torta salata, tu che fai? I biscotti? Uh, sì, i biscottini...
Ginocchia: a proposito...
Fukuda: cosa?     
Ginocchia:
no, niente. Io faccio al torta salata con le patate, tu che fai? 
Fukuda: [serio] io? Io sto giro faccio i biscotti.       

venerdì 8 maggio 2009

Lessico familiare IV

Ginocchia: vabbé! Facciamo che mo' ti saluto.
Sorellauno: sì, ci sentiamo domani! Ché questo è il momento di preparare pappe e mettere pigiamini. Ma aspé, prima di andare, ti devo troppo far sentire questa...
Ginocchia:
che è?
Sorellauno: [fuoricampo] Arianna, ha voglia di cantare Sincerità allo zio?
Arianna: [vago rumore di sbausciamento alla cornetta] nànnaaanànaaaaa, nànnaaanànaaaaa.
Sorellauno: [ridendo] sentito?    
Ginocchia:
te lo dico? quella nana a me fa scassare dal ridere!
Sorellauno: sì, è abbastanza simpatica per avere sedici mesi.
Ginocchia: Cmq è meglio che la disintossichi da quella canzoncina, secondo me ha poteri psicotropi. 

giovedì 7 maggio 2009

il ruolo del coro nel teatro greco

Non mi riconosci, dici.
Mi guardi da una distanza che pare incolmabile e ripeti: "Non ti riconosco più!", come fosse un mantra. Come se in quelle quattro parole potessi trovare la chiave per decifrarmi. Anche la tua testa si muove in negazione, oscilla, nel tentativo di seguire il movimeto incerto di quello che credi sia un mutare.
Ma come cazzo è che quando io mi ritrovo nessuno più mi riconosce?
Non la madre, non le troppe sorelle, non gli amici. Nemmeno i vicini di casa! 
Meno di tutti -ed è questo ciò che duole!- chi dovrebbe sapermi per esserci mischiati la vita con un'ostinazione che ha dell'incredibile.
Solo il gatto sembra sapere che sono sempre io.
Soprattutto quando scalcio. 
      

mercoledì 6 maggio 2009

gran theft auto

Ehi, dico a te! Sì proprio a te, gran genio del furto d'auto.
Volevo solo farti notare che forzare il nottolino di una macchina che è sempre -e quando dico sempre intendo SEMPRE- aperta non è un'idea poi tanto intelligente. Almeno non per il nottolino! Soprattutto, poi, se perseverata diabolicamente da domenica a oggi.
Che poi io nella mia macchina non ci entrerei manco in un giorno di sciopero generale dei trasporti. Mi si sporcano gli occhiali solo a guardarla.
E allora tu, che ogni sera romanticamente la apri, entri, frughi nel cassetto tirando fuori sempre la solita sciarpa vecchia che uso per spolverare il cruscotto, il rotolo del nastro isolante e quel ciddì di totocutugno che ho messo li apposta per farti inorridire, ecco, ma tu me lo faresti almeno il favore di rimettere in ordine quando esci dalla mia auto? Solo questo. Grazie.
Che poi ieri ho capito perché succede: dopo aver acceso la tv e aver sentito Berlusconi -cincin- che raccontava di quando si era travestito da principe berbero è venuta voglia anche a me di andare a dormire in macchina, al parco o sotto i ponti. Le case, con la tv accesa, sono diventate un posto molto pericoloso.
      

martedì 5 maggio 2009

In trasparenza

- E tu, tu cosa desideri adesso?
- Io?
- Tu...
- Io solo scomparire.
- Una cosa semplice...
- Far perdere le mie tracce. Ricominciare, altrove. Essere me, finalmente.